Ginestrino

lotus corniculatus
Con il termine ginestra, ginestrina o ginestrino, si sogliono chiamare moltissime piante con la caratteristica comune di avere fiori papilionacei gialli, di dimensione medio piccola. Così questo nome significa davvero poco, mentre il nome del genere Lotus dà informazioni migliori, essendo il lotos conosciuto fino dai tempi antichi come pianta foraggera e mellifera. A differenza dei trifogli, le specie comprese nel genere Lotus hanno foglie composte di 5 foglioline.
per riconoscere quest apianta è utile osservarne i bacelli, che sono lunghi e disposti in gruppi che ricordano la zampa di un uccello.
Fotografata presso il greto del fiume Trebbia, a Loco di Rovegno.

Rovo bluastro

rubus caesius
Non appartiene al gruppo di Rubus fruticosus questo rovo dai frutti commestibili, ma dai caratteri particolari, come le foglie a tratti palmate e di colore verde azzurro. Il suo nome specifico caesius si richiama proprio al colore nerazzurro.
Per questo nel complicato universo del genere rubus, non è poi così difficile identificarlo. I frutti sono commestibili, anche se meno dolci di quelli del gruppo dei suoi cuginetti del gruppo di R. fruticosus.

Felce florida

osmunda regalisE’ la felce più grande e una delle più antiche presente nel territorio europeo, anche se divenuta piuttosto rara per la contaminazione dell’ambiente naturale e per la raccolta indiscriminata che ne veniva fatta sia per le proprietà officinali, cheper utilizzi in floricoltura. Tipica di zone umide e acquitrinose, è molto appariscente e le fronde raggiungono i 3 metri di altezza. Cresce anche in Italia, in quasi tutte le regioni del Nord, ma io non l’ho mai vista spontanea. Questo esemplare l’ho fotografato nel giardino botanico di Przelewice in Pomerania (Polonia, il sito è solo in polacco e tedesco). L’ho incontrata anche in altri giardini botanici, come quello di Pratorondanino e di Lucca. Imparentata con le felci arboree del Carbonifero, la sua presenza è documentata, attraverso le spore, nel quaternario (circa 1.8 milioni di anni fa). Considerata addirittura relitto dell’era terziaria, presenta alcune caratteristiche di grande interesse per i botanici perchè testimoniano l’evoluzione del sistema riproduttivo e vascolare nei vegetali.

Alchemilla

Alchemilla vulgaris
L’alchemilla è un’erba montana alle nostre latitudini, presenti in Alpi e Appennini, sui prati umidi, nei pascoli e nei boschi. Nel bel giardino botanico di Przelewice in Pomerania (Polonia) era a fine fioritura nel luglio 2010. E’ un’erba dalle foglie graziose e plisettate, che si aprono come ventaglietti, conservando sempre una lieve traccia delle pieghe primitive. Alla forma delle foglie deve il nome comune di erba ventaglina, mentre il nome di erba stella le deriva dai minuscoli fiori giallini, che formano densi corimbi apicali; fiori composti di un calice di colore verde giallastro e di un calicetto, ma senza petali. Fiori assai singolari per una pianta della famiglia della rosaceae.
Il nome deriva dall’arabo alkemelych perchè questa pianta era utilizzata dagli alchimisti che raccoglievano la rugiada depositata nel cavo delle sue foglie. Evidentamente la pianta le trasmetteva proprietà che le altre rugiade non avevano.
L’alchemilla è erba officinale, utile per curare le affezioni epatiche, come antidiarroico e diuretico. E’ anche erba commestibile dalle eccellenti qualità sia cruda che cotta. Nei tempi antichi veniva utilizzata particolarmente per l’alimentazione del bestiame da latte. Una manciate di foglie secche veniva bollita nell’acqua e data da bere alle mucche, sostituendo egregiamente la bevanda ricavata dalla decozione dei semi oleosi. Il latte delle mucche nutrite con questa erba dava doppia produzione di burro. Questo è ciò che tramanda la saggezza popolare, che suggerisce anche come tanta forza nutritiva debba avere qualche validità anche nell’alimentaziuone umana, anche se sarebbe illusorio aspettarsi identici, miracolosi risultati.

Canna

Arundo donax

“… le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti …”
Eugenio Montale

 


Non occorre allontanarsi tanto dalla città. Basta un viottolo laterale, perso verso i fossi. O uno steccato sul nulla di un campo abbandonato. Ovunque crescono le canne.
Le canne, quelle nostrane, così diverse dall’importato bambù.
L’aspetto non è poi così differente di quello della canna da zucchero; ma zucchero Arundo non ne produce; invece con lo zucchero se ne estrae il succo, come suggerisce un’usanza della bassa val Magra secondo la quale si riempiva l’internodo ancora verde di zucchero per trarne dopo due giorni uno sciroppo curativo per la pertosse. Utilizzi medicinali peraltro Arundo ne ha molteplici. Ma la sua utilità è soprattutto pratica. Come potrebbe il contadino fare a meno delle canne? I fusti si usavano come tutori e se ne facevano cesti e stuoie, graticci per seccare la frutta, cannelli per mietitori e bocchini per pipe, scope con le infiorescenze, giochi ed ornamenti. Per tutti questi usi, tranne quelli ormai obsoleti, la canna comune viene quasi sempre sostituita con il bambù, più robusto forse, ma molto meno familiare.

Giunco

Juncus sp
Continua il mio viaggio nella città segreta con questo giunco rinvenuto sul bordo di un muretto in corso Montegrappa (Genova).

I giunchi sono piante un po’ particolari, e vengono spesso confuse (anche da me) con graminacee e ciperacee, con le quali peraltro non sono veramente imparentati (a parte per l’essere tutte monocotiledoni). Sono piante snelle, con fiori poco appariscenti, ma riuniti in spessi gruppi, e foglie cilindriche e lisce. Non voglio azzardare a quale specie appartenga questo giunco, sperduto nel cemento dell’estate cittadina, che vegeta fra piante coltivate con una certa cura, agrumi, oleandri, rose, e altre avventizie vagabonde, margheritine, tipo la cespica, e altre asteracee, tipo saeppole (17 agosto 2009) e inule (28 settembre 2008), di dubbia fama, e tanta erba, abbastanza secca.

Acanto

acanthus mollis
Ma come è successo che questa nobile pianta, dai fusti robusti e riccamente fioriti, dalle larghe foglie tenaci, così ampie e decorative da aver meritato un posto unico nell’architettura della civiltà occidentale, ornamento caratteristico dei capitelli dei templi greci di stile corinzio, come è successo, dicevo, che l’acanto sia caduto così in basso da rappresentare la verzura più diffusa nelle aiuole incolte e mediamente inquinate delle città?
A luglio inoltrato, la fioritura è terminata e gli steli imponenti reggono i voluminosi involucri dei frutti, capsule rigide ad apertura esplosiva, capaci di catapultare a distanza i neri semi. Questo tipo di inseminazione è particolarmente efficace, e me ne sono accorta in giardino per la moltiplicazione esuberante delle Impatiens (26 agosto 2009) che avevo piantato qualche anno fa, ma anche di erbe infestanti come la Cardamine (4 aprile 2009),  che similmente sono capaci di proiettare i semi a distanza,  se appena le silique vengono sfiorate dalla brezza. Credo proprio che l’acanto, forse un tempo sistemato nelle aiuole per ingentilire il catrame con il suo verde intenso, si sia propagato con vigore, tanto da colonizzare gli spazi verdi incolti di mezza città. Un tempo una pianta mitica, oggi umile erbaccia di strada, anche per i vegetali la gloria non regge all’usura del tempo.

Aconito giallo

Aconitum lycoctonum
Questa bellissima pianta è una delle più velenose che esistano, tanto che il romano Plinio ebbe a chiamarla ‘arsenico vegetale’. Questa specie, l’aconito giallo precedentemente chiamato anche Aconitum vulparia, viene detta volgarmente anche lupaia o strozzalupo, tutti nomi che suggeriscono il suo utilizzo come esca avvelenata per uccidere le bestie predatrici del bestiame. Benchè in piccolissime dosi sembra possa essere impiegata come antinevralgico, la sua tossicità è tanto elevata da considerarsi pericoloso per soggetti sensibili anche soltanto raccoglierla. Quindi meglio non rischiare e limitarsi ad ammirarne l’arcana bellezza e il ricercato intrico delle forme. Altre specie del genere, e soprattutto l’aconito azzurro, A. napellus, hanno un indiscusso valore ornamentale e vengono usati da tempo nei giardini. Un po’ meno questa specie, dai fiori giallo pallidissimo, a forma di elmo, addossati gli uni agli altri sulla parte terminale dello stelo. Come altre ranuncolacee, le piante più velenose della nostra flora prosperano negli ambienti antropizzati, concimati dall’humus caratteristico della stabulazione di animali; prosperano risparmiati dai pastori che evitano accuratamente di lasciarli brucare dalle mandrie ben conoscendone gli effetti venefici. Così gli aconiti hanno vita facile, nelle radure di media altitudine e nei luoghi ombrosi e umidi. L’avvelenamento da aconito assomiglia a quello da curaro, il veleno vegetale utilizzato dagli indigeni dell’Amazzonia, e come quest’ultimo veniva usato in passato per avvelenare la punta delle frecce.

Cavolaccio verde

Adenostyles glabra
Assomiglia all’Eupatorium (4 settembre 2008), ma anche ai Petasites (14 aprile 2009), e come questi ultimi si fa chiamare volgarmente cavolaccio, un nome che non le rende giustizia, nè le si addice, essendo pianta mediamente velenosa. Un’asteracea quindi, e neppure tanto pregiata, anche se le sue infiorescenze variopinte, dal rosa al rosso, al viola pallido al bianco, fanno macchia di colore nel bosco ombroso e umido di mezza estate, e le sue foglie lucide e larghe sono abbastanza belle.

Una delle ultime fioriture di luglio, presso le sorgenti del torrente Aveto, al passo della Scoglina.