Un’epatica, o meglio due

Epatica Hepatica nobilis

Hepatica nobilis

La primavera bussa sempre più forte e sul bordo della strada, al confine fra la spazzatura e il bosco, ripido e ancora spoglio, fanno capolino cespi di epatiche dagli stupendi fiori blu. La loro fioritura è brevissima, dura appena poco più di una settimana e segna inequivocabilmente l’inizio della nuova stagione. La parola epatica naturalmente ha prima di tutto a che fare con il fegato e già è difficile capire che cosa c’entri il fegato con le piante, se non per le proprietà curative di alcune di esse. La ragione per cui questa bella ranunculacea ha questo nome così poco poetico non è univoca, ma spesso ricondotta alla forma della sue foglie, trilobate, la cui forma, e il colore rosso viola che assumono quando invecchiano, ricorderebbe quella del fegato. Ho già parlato di questo fiore, che preferisco chiamare erba trinità, il 15 marzo 2009 e anche delle sue foglie.

Epatica Conocephalum conicum

Conocephalum conicum

C’è un’altra pianta, o meglio una grande categoria di piante, che ha lo stesso nome, epatica, ma è molto differente in sotto ogni aspetto. Le epatiche sono una divisione di piante non-vascolari, quindi affini ai muschi, sono piante antichissime e dotate di un sistema riproduttivo primitivo. Crescono nei luoghi umidi, spesso sono appiattite e assomigliano ad alghe. Questa pianta l’ho trovata sul bordo di un vecchio lavatoio abbandonato. Provo a darle un nome, Conocephalum conicum, sempre con il grande aiuto degli esperti di actaplantarum, quindi della famiglia della Conocephalaceae, divisione Marchantiophyta, nome scientifico moderno per le epatiche. naturalmente non ne ho la certezza, non ho interpellato luminari e me la tengo come curiosità. Tralascio anche le complesse questioni di classificazione, ma perchè mai queste piante ancestrali si chiamano epatiche? Questo nome pare sia generato da una serie di equivoci e da una millantata utilità di queste piante, e in particolare Marchantia polymorpha come efficaci rimedi nelle malattie del fegato. Questa leggenda sarebbe originata dall’antica dottrina della segnature secondo la quale la forma delle piante era un’indicazione della loro efficacia terapeutica a vantaggio dell’organo a cui assomigliavano. L’esempio più semplice di questa teoria è quello del gheriglio di noce il cui aspetto contorto richiama le convoluzioni cerebrali e quindi dovrebbe essere benefico per il cervello.
L’aspetto della marchantia e delle altre epatiche ricorda il fegato? Allora al fegato fa bene. Peccato che ci sia poco riscontro in queste due osservazioni, la forma del fegato è così approssimata che quasi ogni specie vegetale potrebbe assomigliargli, e la dottrina delle segnature è una scorciatoia un po’ ingenua per la ricerca di piante officinali. Un altro equivoco viene poi generato da un errore vero e proprio denunciato dal grande botanico ed erborista Fuchs (quello della Fuchsia, vedi 7 ottobre 2009) che si indigna contro gli scrittori che hanno attribuito a queste piante il nome di epatiche come curative del fegato, quando gli antichi Plinio e Discoride innanzitutto non hanno mai accennato ad alcun uso interno, ma soltanto all’utilizzo esterno come unguento. Un unguento per curare il fegato? Non direi proprio, ha ragione Fuchs, meglio non fermarsi alle apparenze.

Iris blu

Iris reticulata

Iris reticulata

Iris reticulata

Iris reticulata  “Katharina Hodgkin”

Il giardino si risveglia, piano piano dopo i crochi gialli ora è la volta degli iris blu. Il nome scientifico, credo, è Iris reticulata e i bulbi vengono dalla Polonia, così devono aver sperimentato freddi assai più rigidi di quello di questo umidissimo inverno ligure. Ma si sono riprodotti parecchio dall’inverno scorso e ora sono sbocciati a mazzi, tappezzando gli angoli delle aiuole. Predominano quelli blu carico, veri principi di fine inverno. Finchè ne sboccia un altro, della varietà più pallida, un po’ staccato dagli altri, ma non meno sorprendente e raffinato. L’ho battezzato affettuosamente ‘il brutto anatroccolo’, pensando allo splendido cigno.
Infatti, nel giro di pochi giorni, mentre i primi iris blu cominciano inesorabilmente a sfiorire, quelli pallidi celestini si moltiplicano rapidamente e l’aiuola, come si conviene in un giardino che si rispetti, ha già cambiato colore.

 

Aggiornamento del febbraio 2019

Il ‘brutto anattroccolo’ sarebbe in realtà la splendida varietà di iris nano Katharine Hodgkin “…vistosamente striato, da molte persone scambiato per un’orchidea”. Non faccio pubblicità a nessun rivenditore, quindi ecco qua, e pure in inglese.

Elleboro

Elleboro - Helleborus foetidus

Helleborus viridis

Fra le sterpaglie e le foglie accartocciate del sottobosco spoglio, l’elleboro è uno dei primi fiori a far capolino, con le sue infiorescenze giallo verdi, pallide e delicate. Oggi questo genere di fiori è assai ricercato dai fioristi e nei vivai, soprattutto nella varietà Helleborus niger, noto come rosa di Natale, che, a dispetto del suo nome è bianchissimo, oppure Helleborus orientalis, con affascinanti varianti di colore.

Nei boschi, si incontrano più facilmente le varietà spontanee di Helleborus viridis (a sinistra), dai grandi fiori solitari, e i cespi di Helleborus foetidus, elleboro puzzolente (a destra, Canate, gennaio 2007). Helleborus foetidusQuelli che sembrano petali sono in realtà sepali bianco verdastri, disposti a forma di tazza capovolta, talvolta con sfumature rossiccie ai margini. Le foglie sono spesse, palmate, nell’H. foetidus sembrano sottili mani dalle molte dita (vedi 25 gennaio 2009).

Il nome del genere ha senza dubbio origine greca, secondo actaplantarum è semplicemente il nome del fiume presso la città di Anticira, dove cresceva l’H.orientalis, pianta usata per curare la follia. Più che la pianta,  le antiche leggende greche tramandano che fosse il latte di capre e pecore che dell’erba elleboro si erano cibate ad essere magico medicamento non solo per le malattie della mente, ma anche per molti altri malanni. Secondo altra fonte(1), il nome elleboro deriva da due termini “helein” che significa uccidere e “bora”, pascolo nutrimento, ovvero “cibo che uccide”, sinistra allusione al fatto che la pianta è certamente velenosa, come numerosi suoi parenti della famiglia delle ranunculaceae. Anche i nome delle specie, lividus, niger, foetidus non sono molto elogiativi. H. foetidus deve il suo aggettivo all’odore non proprio garbato che emana attraverso ghiandole presenti nelle foglie e nel fusto. Non ho mai sentito quell’odore, ma pare che io non sia la sola, ormai gli odori antichi sfuggano alle nostre moderne narici. E così, mentre mitologia e tradizione popolare hanno per secoli e millenni attribuito agli ellebori fantasiose virtù magiche e curative, da tempo essi non sono più considerati piante medicinali, anche perché si sa che contengono due glucosidi, elleborina e elleboreina, mortalmente tossici.
Piante molto note ed ammirate perché fioriscono d’inverno,  gli ellebori furono definiti “uno dei benefizi della natura per adornare la mesta nudità dell’inverno”. In sintonia con gli antichi usi officinali, gli ellebori assumono il valore simbolico di “follia d’amore”, ma anche di purezza, tanto che in alcune regioni d’Italia sono chiamati ‘fiori di Sant’Agnese’.

(1)G.Nicolini e A.Moreschi – Fiori di Liguria, Edizioni SIAG, Genova, senza data

 

Kokopelli

Kokopelli

Kokopelli, spirito della musica e della fertilità

Niente fiori oggi, ma una cartolina che ho ricevuto qualche giorno fa dagli Stati Uniti. E’ una delle figure più comuni nelle incisioni rupestri del Sud Est, risalenti fino all’anno 1000. Kokopelli è una divinità della fertilità, dell’uomo e del suolo, rappresentata come un gobbo che suona il flauto e venerata dagli indiano Navajo e da altre antiche popolazioni di quelle regioni (oggi Utah, Arizona, New Mexico e Colorado). Kokopelli è il protettore di nascite e raccolti, ma rappresenta anche lo spirito della musica. Viene raffigurato frequentemente insieme a animali selvatici prede di caccia perché era il guardiano anche della loro riproduzione.
Kokopelli è anche il nome di un’associazione francese che ho conosciuto a una fiera di piante diversi anni fa. Un’associazione per la salvaguardia e la custodia dei semi. Costudire i semi non consiste nel catalogarli in ordine in un cassetto. Costudire i semi significa piantarli, farli germogliare e crescere, fino a che la pianta fiorisce, fruttifica e produce nuovi semi. E’ un compito niente affatto da poco, direi piuttosto impegnativo. Per gioco mi hanno regalato dei semi dell’atreplice biondo, uno spinacio selvatico rustico e dolce. Ma io, distratta, sono già due anni che non li ho più seminati e oggi sono corsa ai ripari. Anche se l’inverno non è ancora finito, anche se dovrò forse aspettare mesi prima di vederli spuntare, sono erbe di prato e ho fiducia che non mi lasceranno sola.

Croco giallo

Crocus chrysanthus

Crocus chrysanthus var Saturnus gold

Nell’ultimo dei giorni della merla, il periodo più freddo dell’anno, il sole splende a tratti e l’aria è frizzante. L’inverno è nel suo culmine e davvero ancora non lo ha ancora raggiunto. Nevicate a febbraio e inizio marzo sono comuni nella nostra memoria. Ma alcuni fiori hanno già percepito che le giornate hanno smesso di accorciarsi. Anzi, si stanno allungando. Per questi crochi dorati, arrivati addirittura dalla Polonia, è ora di sbocciare. Giallo intenso, da stordimento e petali perfetti.
L’inverno, forse arriverà da domani, portando neve e bufera. Ma per loro, che brillano come sole in mezzo alle foglie secche, per loro è già finito.

Si tratta di una varietà da giardino che ho attribuito, non so se correttamente, alla specie chrysanthus, che non è spontanea nella nostra flora. Fiorisce così precocemente nell’inverno che viene anche detto ‘croco della neve’. Si ibridizza facilmente con il Crocus biflorus che ha caratteristiche simili ed è spontaneo in Liguria e in tutta l’Italia. Molte varietà in commercio sono effettivamente ibridi di biflorus e non saprei certo dire nulla di preciso rispetto alla mia varietà, di cui mi è stato tramandato solo il nome pienamente meritato di “Saturnus gold”. Certo si tratta di un fiore semplice e generoso, che sopporta di essere dimenticato per quasi 11 mesi all’anno per mostrarsi così unico e impavido quando quasi nessun altro osa.

Altri fiori temerari:
Iberide perenne

Fitolacca

Phytolacca americana

Phytolacca americana

Autunno fango e colori. Autunno fulmini e fuoco. Autunno tripudio di bacche, fulgide nel diluvio. Ci svegliamo in mezzo alla nebbia, di fronte un muro d’acqua compatto, umidi fin dentro l’anima, sulla terra madida e molle. Talvolta le nuvole si aprono sul bosco, che è già scuro. Ma a tratti rosso. Per questo cerco i colori e li trovo soltanto nei frutti.

Dopo l’evonimo, ecco la fitolacca, una neofita invasiva, dal nome si capisce da dove viene, ormai naturalizzata, che infesta cortili e fossati, ruderi, rivi e scarpate con affascinante aggressività. Una volta ho scambiato i suoi vigorosi germogli per piante di peperone, dato che peperoni avevo seminato. Li ho trapiantati con cura nell’orto prima di accorgermi dell’errore. Ora la strappo senza pietà non appena la immagino. Ma non le serbo rancore. In fondo mi è simpatica e la trovo anche bella. Con le sue pannocchiette (tecnicamente racemi) di fiori bianchi e verdi (ma non sono petali, piuttosto elementi sepaloidi) che si fanno bacche lucide verdi poi porpora poi nere. Dalle bacche si ricava tintura e la pianta, pur certamente tossica, è officinale, era usata dagli indiani d’America per vari usi medicamentosi e a tutt’oggi è studiata per possibili proprietà antivirali e antitumorali.

Altre immagini della fitolacca:
in campagna, 17 agosto 2008, e in città
e due immagini di una sua una cugina da parco, la fitolacca dioica, foglie e frutti.

Liquidambar, l’americano

Liquidambar styraciflua

Liquidambar styraciflua
San Diego – California

Questo bell’albero, ormai comune in parchi e giardini, è originario dell’America settentrionale, fra il Canada e il Messico. Il suo nome suscita sempre curiosità. Ha un suono arabeggiante, ma in realtà deriva dallo spagnolo. Significa ‘ambra liquida’, a causa della resina molto fluida, che gli indigeni americani usavano come antiparassitario. Quest’albero ha belle foglie palmate, quasi a forma di stella, profumate di incenso che assomigliano a quelle degli aceri, ma da queste si distinguono perchè sono alterne e non opposte.
Qui mi pare giusto mostrarlo nel suo paese di origine, anche se ormai è diventato cittadino del mondo.
Ho fotografato queste piante giovani (a sinistra) nel novembre 2010 a San Diego, gradevolissima città della California del sud. Anche se il liquidambar non fa parte della vegetazione originaria della West Coast, si è felicemente adattato a questo clima fresco e soleggiato, all’aria leggera che parla di grandi spazi e oceani infiniti. Un’altra immagine di questi variopinti virgulti si trova qui.

Liquidambar styraciflua "Rotundiloba"

Liquidambar styraciflua “Rotundiloba” Washington DC

Rosso fuoco nell’autunno anche il suo fratello incontrato a Washington (a destra), più vicino alle sue origini, ma ancora più lontano dal suo ambiente perchè veramente nel centro di una metropoli. Quest’esemplare di liquidambar è diverso dagli altri e non l’avrei riconosciuto senza l’aiuto degli esperti di un forum americano sulle piante Dave’s Garden. Questa varietà si chiama “Rotundiloba” perchè i lobo delle sue foglie, invece di terminare a punta come nella varietà più comune sono arrotondati.

Con questo post voglio cominciare a riprendere alcun foto del vecchio blog per dar loro nuova visibilità.
Queste e altre foto del liquidambar si trovano in questi post:
25 novembre 2008
18 novembre 2009

I colori della Lagerstroemia

Lagerstroemia indica

Lagerstroemia indica in agosto

La lagerstroemia è una pianta esotica della famiglia della Lythraceae, l’attributo indica suggerisce correttamente che venga dall’Asia. Ma il colore dei suoi fiori ricorda un poco il più tradizionale lillà (syringa vulgaris, famiglia della Oleaceae) , così da averne, talvolta, usurpato il nome. Ma syringa fiorisce, con grazia di giovinetta, in primavera, mentre lagerstroemia fiorisce, con sfacciato entusiasmo, in piena estate.

Lagerstroemia indica

Lagerstroemia indica in ottobre

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa pianta ama i colori forti. Perduti gli sgargianti fiori lilla di agosto, sotto le vuote, secche spighe, le foglie cambiano colore e assumono una tonalità arancione acceso. Una fiammata prima di andarsene via.

(per favore, selezionate le immagini per vederle nelle dimensioni giuste)

Visite per la lantana

lantana sellowiana

Lantana sellowiana

L’autunno è ormai alle porte, come ci racconta l’aria frizzante, i colori cangianti della foglie, e la penombra del precoce tramonto. Nel nostro tempo ormai quasi solo tecnologico, l’inizio dell’autunno è segnalato dall’ordine superiore di spostare di un’ora indietro le lancette dell’orologio in una notte di ottobre.
Soltanto una settimana fa, questa sfinge colibrì si affacendava senza sosta sugli abbondanti fiori della lantana in fondo al giardino. Questa falena, il cui nome vero credo sia Macroglossum stellatarum non si posa mai, ma le sue ali si agitano senza sosta, portandola di fiore in fiore a infilare la sua spirotromba in fondo alle corolle per succhiare il nettare. Proprio fatti per lei i fiori della lantana, con petali concresciuti a tubo, esili, ma profondi.
Ho imparato a diffidare dei lepidotteri, fra cui si annoverano individui pericolosissimi, capaci di generare miliardi di bruchi famelici. Credo (spero) che le sfingi colibrì siano innocue da questo punto di vista. Le avevamo già viste all’opera nelle sere d’estate sulle belle di notte (Mirabilis jalapa, 18 settembre 2009). Ma questi fiori sono stati spazzati via velocemente delle tempeste di inizio ottobre. Invece resiste la lantana, pianta originaria del Sud America e dalla generosa fioritura che può durare fino ad autunno inoltrato. Anche se il vento le ha spezzati alcuni rametti, la pianta ha gradito la pioggia abbondante e ha ripreso la fioritura che si era quasi arrestata a fine settembre. La lantana è un’esotica della famiglia della verbenaceae, da non confondere con Viburnum lantana, caprifoliacea, che si può incontrare al limitare dei nostri boschi.

vedi anche 8 novembre 2009