Il mio giardino planetario

Taraxacum officinale

Taraxacum officinale

Racconta Gilles Clement,  noto architetto paesaggista che sarebbe poi diventato sincero ammiratore delle erbe vagabonde, che da ragazzo subiva la “tirannia del prato”.  Suo padre, che il prato lo aveva seminato, rullato, annaffiato e nutrito, pretendeva che il risultato fosse sempre perfettamente “inglese”.  Così il giovane Gilles, armato di sgorbia, si affannava a sradicare qualsiasi erba intrusa che rovinasse la precisa uniformità dei sottilissimi fili d’erba.  Tuttavia, la natura non pareva dargli alcuna soddisfazione.  Al contrario, alla prima pioggia lasciava che spuntassero “abominevoli specie dalle foglie villose, carnose e ben tappezzanti, che niente avevano a che fare con l’immagine sul pacchetto della semenza”. Tarassachi e verbaschi, loti e potentille, pratoline, romici e grespini, cornette e lunarie ritornavano più forti e spavalde di prima.

Giardino : Lunaria Taraxacum

Lunaria annua
Taraxacum officinale

Ho tentato un paio di volte a seminare un prato all’inglese, senza neppure troppa convinzione. Talvolta l’erba è cresciuta, se la primavera era abbastanza umida. Per disperdersi poi nella calura estiva, o soffocata da infestanti di varia provenienza. Il segreto del successo fu rivelato una volta da un gentiluomo britannico a un amico americano: “Il prato si semina e si annaffia; quando l’erba spunta e cresce,  si taglia e  si annaffia; l’erba cresce e si taglia; si annaffia, si taglia e si annaffia. E poi basta andare avanti così, per trecento anni.”
Si tratta di un tipo di prato abbastanza incompatibile con il clima mediterraneo, e comunque incompatibile con chiunque ami il giardino planetario.
Così nel mio giardino intrusi e imprevisti della primavera sono i benvenuti, anche se la cura dell’orto e un po’ di pulizia mi costringono mio malgrado a ridimensionarli costantemente.  Mi diverto a riconoscerli tutti e la sorpresa più bella è scoprirne qualcuno nuovo e osservarlo mentre cresce e si rinforza, cercando di indovinare di che si tratti. Mi è accaduto con il Geum urbanum, che ha ormai colonizzato il praticello ai piedi di un olivo. O i papaveri, Papaver rhoeas oppure Papaver dubium, che spuntano regolarmente spontanei ai bordi della cisterna.

Molto celebre e onnipresente è il tarassaco (gruppo del Taraxacum officinale), che ha molti nomi, da piscialetto per le sue supposte proprietà diuretiche, a girasole, essendo indiscutibilmente un cerchio di petali gialli.  Contrariamente a quanto molti pensano però non tutte le margherite di quella forma sono tarassachi, anzi, ne esistono  decine di generi e specie assai diverse, ovunque nei prati, ma anche sui cigli delle strade.  La buona notizia è che sono tutte quante mediamente commestibili, ovvero è piuttosto difficile avvelenarsi assaggiando foglie e fiori a forma di tarassaco (cerchiamo però di non confonderlo con il ranunculo).

Meno note come piante, ma certamente riconoscibili quando vanno in seme, sono le cosidette monete del papa (o medaglioni del vescovo). Ma prima di diventare monete, i fiori della Lunaria annua sono di un bel rosa acceso, a quattro petali come tutte le crucifere. E’ una pianta annuale che si rinsemina voracemente, diffusissima in questa stagione in ogni angolo verde (ne ho visto addirittura un cespo ai bordi della sopraelevata strada Aldo Moro).

Giardino : Viola odorata

Viola odorata
(con Taraxacum officinale)

Veronica persica

Veronica persica

La piccola veronica Occhi della Madonna (Veronica persica) si fa contemplare a lungo prima che mi rassegni a estriparla. Sicura comunque che tornerà. Come ritorneranno, più dense e rigogliose di prima le famose violette, messaggere della primavera (Viola odorata), pianticelle incredibilmente invasive e tenaci, che ovviamente si fanno perdonare quando riempiono di colore gli angoli più oscuri dell’inverno che se ne va.

Il centonchio comune, che si chiamava Anagallis arvensis, oggi Lysimachia arvensis (famiglia Primulaceae),  è un’erbetta infestante che fiorisce costante dalla primavera fino all’autunno, con microscopiche corolle di un fiammante rosso mattone. Visti da vicino, da molto vicino, i fiori sono appariscenti e figurerebbero senza dubbio fra specie ricercate come ornamento, se non fosse per le ridotte dimensioni (il diametro dei fiori arriva a malapena a un centimetro).

Anagallis arvensis

Anagallis arvensis (Lysimachia arvensis)

Anche la piantina è ridotta, con fusti striscianti e morbidi, che si strappano e sradicano con estrema facilità, ma con altrettanta facilità germogliano di nuovo. Una sua parente, il centonchio azzurro, Lysimachia foemina, gode di miglior fama, forse perchè è un po’ più rara ed ha petali azzurro turchini. Invece il centonchio comune, che cresce dappertutto, non merita molta considerazione. Si mimetizza con disinvoltura in mezzo alle insalate fra le quali è nata e cresciuta; ma è tossica e si dice possa causare intossicazioni alimentari. Io la trovo spessissimo in mezzo a qualsiasi cosa raccolga nell’orto. Non posso escludere di averla assaggiata per errore; sarà stata la modica quantità, non ricordo di aver avuto disturbi significativi. Sospetto che chi si è intossicato, piuttosto che dimenticarsi di toglierla dall’insalata, l’abbia scambiata per l’insalata.

Euphorbia peplus

Euphorbia peplus

Certamente velenose, o comunque moleste, sono le euforbie, una ricchissima famiglia di erbe molto particolari, che annovera al suo interno la celeberrima stella di Natale o poinsettia, oltre a gigantesche piante spinose, frequentemente confuse con le cactaceae.

Euphorbia helioscopia

Euphorbia helioscopia
(con Taraxacum officinale)

Nel mio giardino planetario cresce molta, anzi troppa, euforbia minore (Euphorbia peplus), sbrindellata e poco attraente. Ma a primavera sbocciano le infiorescenze verde giallo dell’euforbia calenzuola (Euphorbia helioscopia), assai più vivace e simpatica. Le euforbie contengono lattice irritante, ma anche sostanze medicamentose. Mai fidarsi delle euforbie, mai sottovalutarne le potenzialità.

Tante ancora potrei ricordarne,  sfacciate e graziose erbette da compagnia, discrete e tenaci, timide ed impudenti, mutanti con  le stagioni di cui scandiscono il tempo.  Ogni anno muoiono e rinascono, sempre uguali e sempre diverse,  perchè nel prato la permanenza non esiste,  ma soltanto il continuo divenire.

Stellaria media
Sonchus asper
Malva sylvestris
Potentilla reptans

Lunaria rediviva

Lunaria rediviva

Lunaria rediviva

Bisogna ammetterlo.  Se la primavera è la stagione dei fiori, dei colori inaspettati e dei verdi morbidi e magici, di quando la naturaè una fanciulla di vent’anni, e si mostra timida e sfacciata in tutto il suo fascino segreto,  l’estate invece,  soprattutto l’estate inoltrata e  sfatta di fine agosto, è la stagione delle erbe stanche, delle piante  fiaccate dall’afa, spesso ridotte a  sterpi ruvidi e grigiastri, colonizzati dai più disparati parassiti.  L’estate è la stagione dei frutti, dei figli che consumano le madri e ne risucchiano la bellezza.  D’estate ci si accontenta di scoprire qualche fiore tardivo, fra le chiome intricate di un fogliame troppo abbondante.

Non sono belle le forme di questa pianticella, Lunaria rediviva, che cresce fra bosco e prato, anche più comune della Lunaria annua, i famosi  medaglioni del papa.  Sono proprio  i frutti a stupirmi,  siliquette oblunghe ancora verdeggianti oppure già ingiallite, troppo ovali per sembrare monete; ma quando sono secchi si sfogliano, scoprendo una membrana centrale traslucida e argentata.  Pianta perenne, come suggerisce il suo epiteto specifico rediviva, è davvero molto simile alla sua sorella L.annua (che comunque pare che annua non sia, ma perenne anche lei).  Mi ha sorpreso così, per la somiglianza e la diversità insieme e sono curiosa se a primavera ne potrò scovare i fiori, quattro petali a croce come tutte le brassicaceae, rosa pallido o bianchi, profumati.

Una nuova violacciocca

Violacciocca

Matthiola longipetala

 

E’ fiorita finalmente anche questa piccola violacciocca venuta da lontano.  La violacciocca dai lunghi petali, Matthiola bicornis, o meglio Matthiola longipetala, non è certamente una specie rara, anche se non spontanea in Italia se non come alloctona casuale in Emilia Romagna. Ma la mia però viene da lontano perchè una bustina dei suoi semi mi è stata regalata da un’amica russa.  Seminata ad aprile, era sputata subito, ma messa a dimora nell’aiuola ha avuto un po’ di esitazioni. Ora i suoi teneri fusti sono pieni di fiori, che sembrano quelli della rucola, ma rosati.  Dicono che soffre il caldo, ma io spero che resista abbastanza da restituirmi qualche semino per l’anno a venire.

Parente stretta di quella Matthiola incana che ha rallegrato il mio giardino per anni (vedi 5 giugno 2009, ma anche qui e qui), il suo nome deriva quello di un famoso studioso del Cinquecento, Pietro Andrea Mattioli, medico e umanista e ovviamente botanico.

Arabetta irsuta

Arabetta irsuta

Arabis hirsuta
Arabetta irsuta

L’arabetta, ovvero elogio dell’inutilità.  Nelle sue varie specie, ecco una delle pianticelle più piccole e insignificanti che popolano i nostri prati. Non è pianta alimurgica, nè medicinale. Non ha steli o foglie atti alla confezione di qualsivoglia cose. E non è neppure una pianta tossica. Se consulto l’utile compendio del professor Paolo Maria Guarrera(1), nell’elenco alfabetico delle specie e loro utilizzi tradizionali,  la voce Arabis semplicemente non c’è.  E se scorro le schede botaniche di actaplantarum, solamente una delle specie,  A.alpina,  ha un bollino verde, che indica le piante commestibili, mentre tutte le altre Arabis hanno inesorabilmente un bollino vuoto.  L’arabetta però è pianta molto comune e generosa di microscopici fiorellini bianchi a croce quadrata, come si conviene a una brassicacea, non per niente dette anche crucifere, diffussissima nelle sue numerose forme nei prati di aprile e maggio. Questa nelle foto è  Arabis hirsuta, arabetta irsuta, ovvero pelosa, una delle più frequenti insieme all’arabetta maggiore  Arabis turrita  (vedi 26 marzo 2010),  oggi rinominata Pseudoturris turrita,  ma sempre straordinariamente inservibile.

Arabetta irsuta

Arabis hirsuta
Arabetta irsuta

Caratteristica di questa specie è la rosetta di foglie basali, ovali e lisce, punteggiate di peli.  Foglie che assomigliano  a quelle di Pseudoturris turrita, ma anche a quelle della loro famosa cugina, Arabidopsis thaliana. Quest’ultima è un’altra pianticella assolutamente inutile (così fu appunto definita da un botanico del ‘700), ma che è diventata una specie di stele di Rosetta della genetica vegetale. Tutto o quasi tutto quello che si sa delle biologia molecolare delle piante è stato scoperto grazie agli studi su Arabidopsis thaliana, e proprio in ragione della sua semplicità, che è anche modestia, che rendono la sua riproduzione e crescita veloce ed efficiente.  Mai sottovalutare una pianticella insignificante, chissà che fra qualche tempo anche la nostra arabetta pelosa non abbia storie interessanti da raccontarci.

Per ora la incontro, la fotografo, e un po’ la ammiro, su per le mie colline, in una mattinata di primavera limpida, ma nuvolosa, poco prima della pioggia.

(1)Paolo Maria Guarrera – Usi e tradizioni della flora italiana – Aracne 2006

Lattona

Lepidium draba - lattona

Lepidium draba
Lattona, Cardaria draba, Cocola

Una distesa di ombrelle bianche, fatte di piccoli fiorellini a croce. Penso a un’ombrellifera (apiacea), ma non lo è, si tratta di  una brassicacea.  Il nome del genere, Lepidium, allude alla forma del frutto, siliquette dalla forma di piccole scaglie, e draba per la specie  significa aspro, pungente.  E’ il sapore acre delle foglie, e quello piccante dei semi a cui deve questo nome?  Erba commestibile, ma non particolarmente prelibata, non ha neppure spiccate proprietà officinali.
Anche se uno dei suoi, molteplici, nomi volgari è lattona, non si distingue per proprietà galattogoghe, nè contiene  lattice bianco come la lattuga. Questo nome, credo, è invece dovuto al suo colore bianco, come quello inglese di ‘whitetop’.

Da millenni l’uomo attinge al regno vegetale come a uno scrigno pieno di tesori, una fabbrica di molecole attive, e praticamente tutte le piante hanno un utilizzo pratico. Neppure la lattona ‘whitetop’ è sfuggita a questa razzia, perchè comunque si tratta di una riserva di proteine naturali, come per esempio la perossidasi, con potenziali utilizzi in medicina e biotecnologia.

Sisymbrium irio, erba cornacchia iridata

Sisymbrium irio

Sisymbrium irio
Montegrosso d’Asti

 

Addossato alla possente scarpatura della fortezza medioevale di Montegrosso d’Asti, questa pianta, esuberante e selvatica, ha già quasi esaurito la sua fioritura e sta producendo i lunghi frutti, silique torulose, ovvero cilindriche, ma alternate da strozzature e rigonfiamenti.

Il genere Sisymbrium è quello della celebre erba cornacchia o dei cantanti (Sisymbrium officinale) e anche di altre specie meno nobili, ma altrettanto efficaci, come l’erba cornacchia biancastra (Sisymbrium erysimoides), che ho trovato in città, alloctona naturalizzata in Liguria.

Questa specie, detta, ma non saprei perchè,  erba cornacchia iridata, è diffusa in tutta Italia, isole comprese. Tuttavia  non ne è documentato alcun utilizzo, ad eccezione dell’uso alimentare in Sardegna, menzionato da Aldo Domenico Atzei nel suo monumentale trattato.  Però il Sisymbrium irio, che è diffuso come pianta indigena in tutto il continente euroasiatico e nel Nord Africa, è utilizzato dalla medicina tradizionale in Pakistan e molto probabilmente nelle regioni vicine, per il trattamento di distubi gastrointestinali, delle vie aeree e del sistema vascolare(1).   Gli autori dell’articolo citato lo presentano con i vari nomi con cui è conosciuto, sia in inglese (London rocket) che in arabo (Khubba) e in urdu (khaksi, khubkalan, shaba), testimoniando quanto la pianta sia importante.  La conclusione della loro ricerca è che l’estratto dei semi ha un effetto broncodilatatore e modulatore della motilità intestinale, probabilmente a causa del blocco dei recettori muscarinici (proteine a cui si lega il trasmettitore acetilcolina, fondamentali nel funzionamento del sistema nervoso autonomo), e ha anche un effetto vasodilatatore a causa del blocco dei canali del calcio.  L’uso tradizionale (in inglese si dice folkloristico, ma questo termine in italiano mi pare fuorviante)  di questa pianta pare quindi confermato da evidenze sperimentali scientifiche, e questo ci conforta non poco.  Resta il dubbio di come mai una pianta così ricca di principi attivi e di efficacia sia completamente sfuggita alla medicina popolare del nostro paese. E’ possibile che nella regione indo pakistana la pianta presenti una composizione  un po’ diversa da quella della pianta italiana.  Il che non è per nulla sorprendente, anzi è assolutamente normale che la chimica dei vegetali dipenda in modo determinante da dove e come crescono.  Si possono trovare differenze molto significative anche in piante della stessa specie provenienti da diverse regioni italiane, o addirittura nella stessa regione. Potremmo parlare del pesto alla genovese che assume un sapore caratteristico con il basilico cresciuto sulla sponde del mar Ligure, ma non altrove, anche se  sempre dello stesso Ocimum basilicum  si tratta.  Oppure  dello zafferano d’Abruzzo, che è più ricco di crocina, un efficace antiossidante, del Crocus sativus coltivato in altre località.  Si tratta di esempi casalinghi, ma altri ne potrebbero fare gli esperti di farmacologia e fitoterapia in tutto il mondo.

(1)Hussain et al. Anti-cholinergic and Ca2+-antagonist mechanisms explain the pharmacological basis for folkloric use of Sisymbrium irio Linn. in gastrointestinal, airways and vascular system ailments. J Ethnopharmacol. 2016 193:474-480 – doi: 10.1016/j.jep.2016.09.028

Chi prospera e chi resiste

Chi prospera e chi resiste - Calicanto d'inverno

Chimonanthus fragrans

Chi prospera e chi resiste - Alisso

Lobularia maritima

 

L’anno nuovo è cominciato con scorci di limpido sole e aria tiepida, solo a tratti disturbata da folate di vento selvaggio. Il giardino è nitido e spoglio, anche se a ben vedere sono molte le piante che resistono o addirittura mostrano il meglio di sè proprio in questo periodo.

Non soltanto la Camellia hiemalis che ho mostrato ieri, ma anche il calicanto d’inverno (Chimonanthus fragrans)  si è riempito di fiori.

Sull’aiuola più bassa, dove il Solanum non ha ancora smesso di fiorire,  scopro un minuscolo cuscinetto di alisso (Lobularia maritima), coperto di corolle violette, dal dolcissimo odore di miele.

La pianta capostipite di tutti i lamponi (Rubus idaeus, 1 agosto 2008) del giardino, come ogni anziana patriarca che si rispetti, fiorisce ormai assai poco. Ma proprio in questi giorni ha deciso di maturare una drupa, anzi l’agglomerato di drupe detto drupecetum. Così rosso e vulnerabile, probabilmente duro e insapore, certamente  nessuno oserà strapparglielo.

Chi prospera e chi resiste - Rubus idaeus

Rubus idaeus

Chi prospera e chi resiste- Grespino

Sonchus oleraceus

E che dire del grespino (Sonchus oleraceus, 19 febbraio 2009), che cresce nelle crepe del selciato, fra il cemento e le mattonelle, e si alza dritto e deciso, sotto lo sguardo sornione della gatta Patty?  Si adorna sempre, in qualsiasi stagione, di capolini giallo sole, densi, solidi, grassi.  Parafrasando Betty Smith e il suo albero del cielo (Ailanthus altissima), potremmo dire che  “li si direbbe bellissimi, se non fosse che ce ne sono troppi”(1).

Io, invece, osservo attenta e preoccupata quanto è rimasto della piantina di Filipendula ulmaria che spero tanto, ma proprio tanto resisterà all’inverno, e poi si troverà bene dove l’ho sistemata, e crescerà prospera e felice. Spero.

Chi prospera e chi resiste - Filipendula ulmaria

Filipendula ulmaria

(1)Betty Smith – Un albero cresce a Brooklin, New York 1947

Vesicaria maggiore

Alyssoides utriculata

Alyssoides utriculata

 

Scopro questa brassicacea (la famiglia dei cavoli) sulle pendici della ripida Val Graveglia, nell’alta entroterra di Sestri Levante (Genova), lungo una poderale sterrata verso la cosidetta roccia dell’aquila. Mi sorprendono le sue silique (anzi siliquette(1)) rotondeggianti come otricelli (da cui il nome specifico utriculata), che subito mi fanno capire che è un genere diverso dai soliti broccoletti, rapanelli e altre crucifere da campo. La mia fortuna è che il suo nome comincia per A ed è una delle prime brassicacee in cui mi imbatto nella ricerca. Anche il nome volgare, vesicaria, si riferisce alla forma curiosa dei suoi frutti.

Alyssoides utriculata

Alyssoides utriculata – frutti (siliquette)

I fiori, gialli e simmetrici come tutti gli altri, sono quasi sfioriti in questo fine aprile e fotografo quello che c’è. Molto abbondante su queste pendici scoscese, non è pianta rara in questi ambienti, ma neppure comunissima, e non ne è documentato nessun utilizzo officinale o alimentare. Come ornamentale, gli è forse preferito il più noto alisso, da cui ha copiato un po’ il nome.

Curiosa, ma davvero non serve a niente? E invece no, anche questa modesta vesicaria ha attirato l’interesse della scienza proprio per la sua capacità di crescere e prosperare tutto l’anno su suoli di serpentino, in ambiente arido e asciutto, come sono appunto le pendici rocciose delle coste mediterranee. La sua tolleranza per questi substrati ricchi di metalli anche tossici ne suggeriscono l’utilizzo come iperaccumulatrice di nickel, che tollera senza che il suo meccanismo fotosintetico si inceppi(2). Queste piante potrebbero quindi venire impiegate per la depurazione dei suoli contaminati da metalli mediante un procedimento che prende il nome di fitorisanamento (phytoremediation).

(1)Siliquetta è il nome che si dà al frutto delle brassicacee quando lunghezza e larghezza sono pressappoco uguali. Viceversa si chiama siliqua un frutto allungato, lungo circa tre volte la propria larghezza.
(2)Roccotiello et al. Nickel phytoremediation potential of the Mediterranean Alyssoides utriculata (L.) Medik. Chemosphere. 2015 119:1372-1378. doi: 10.1016/j.chemosphere.2014.02.031.

Rucola selvatica a Paestum

Diplotaxis tenuifolia

Diplotaxis tenuifolia


…dal post del 13 luglio 2009 … “Va sotto il nome di ‘rucola selvatica’ per distinguerla dall’altra rucola, forse più comune Eruca sativa (vedi 13 ottobre 2008). E’ della stessa famiglia, crucifere o brassicaceae che dir si voglia, ma diverso genere; dalla rucola comune differisce per la forma delle foglie, più lunghe e frastagliate, per l’aspetto dei fiori, ovviamente a quattro petali, ma gialli e non bianchi e anche più minuti, e per il sapore più piccante e deciso. Inoltre questa pianta è molto rustica ed è perenne anche nei climi più freddi.”
Non è il caso certo di Paestum, una stupenda piana soleggiata e aperta dove questa gustosa erbetta cresce spavalda fra le pietre, in buona compagnia.

Dal 2009 nel mio giardino si è propagata senza sosta, abbandonando la postazione originale, dove è stato messo a dimora un’ingombrante corbezziolo (Arbutus unedo). Ora cresce in mezzo ai lamponi, e nelle crepe del cemento, sempre gustosa, prima della fioritura.

Aubrezia

Aubrieta deltoidea

Aubrieta deltoidea

Un nuovo arrivo in giardino, un’altra brassicacea violetta, perenne, quasi a sostituire la violacciocca (Matthiola incana) che il gelo ha castigato anche troppo. Seminata nella scorsa primavera, aubrezia è fiorita abbondante fin dalla fine di marzo, piccoli fiori su pianticelle esilissime.  Ci vorrà tempo perchè diventi quella ‘cascata azzurra’ che prometteva la fotografia della busta, o che si trova nelle foto sul web che la pubblicizzano. La specie non la conosco, probabilmente è un ibrido di quella Aubrieta deltoidea, indigena della Sicilia, da cui sono derivate tutte le aubrezie da giardino. Nelle altre regioni d’Italia, e del mondo, aubrezia non esiste spontanea, ma solo come sfuggita alla coltivazione e molto occasionalmente.

L’Aubrezia è una pianta  perenne, fiorisce abbondantemente all’inizio della primavera, formando dei cuscinetti azzurro violetto,  e poi quasi scompare, le foglie soffrono molto per il caldo e appassiscono. Perchè ritorni al suo splendore, deve tornare un’altra primavera.