Fiori di luppolo

Luppolo

Fiori maschili di luppolo Humulus lupulus

Il luppolo è una pianta dioica, cioè ha fiori sessuati su esemplari diversi. Questi sono i fiori maschili, che producono il polline, mentre quelli femminili sono le ben note pannocchiette (vedi 5 settembre 2008), utilizzate per aromatizzare la birra dai tempi del leggendario Gambrino.
Le foglie piccole e ovali, i fiori verde gialli, quasi quasi non riconoscevo il mio luppolo, pianta con cui ho giocato per tutta l’infanzia. Della stessa famiglia della canapa, condivide con lei proprietà sedative e calmanti, addirittura soporifere. Grande è l’interesse per questa pianta anche dal punto di vista medicinale, tanto che un veloce ricerca sul database americano PubMed mi restituisce 838 pubblicazioni che in qualche modo riguardano Humulus lupulus.

Ma non solo. E’ una pianta alimurgica, e ben si accompagna all’orzo, con cui evidentemente si trova bene non solo nella birra, nelle minestre e con il cereale tostato. I giovani germogli possono essere consumati come verdura lessa e condita o  come ingrediente di frittate. Anche il pane può essere insaporito impastando la farina con acqua in cui vengano immersi i fiori femminili.

Una pianta di tali risorse non poteva essere priva di virtù magiche e frequenti sono i riferimenti al luppolo per esorcizzare il malocchio.

Noto che alcuni testi, forse non troppo recenti, classificano il luppolo nella famiglia della moraceae, con fico e gelso per intenderci. Anche la canapa (Cannabis sativa) faceva parte di questa famiglia, forse perchè la famiglia della cannabaceae non era stata ancora inventata. Alle cannabaceae appartiene anche il bagolaro comune (Celtis australis, 17 dicembre 2008 o meglio 7 settembre 2009 ) e i suoi parenti più esotici come Celtis glabrata, lasciando l’olmo quasi da solo nella famiglia della Ulmaceae.

Assenzio, un’artemisia come tante

Assenzio

Artemisia absinthium

L’assenzio selvatico (Artemisia absinthium) è una pianta dalle innumerevoli virtù officinali. Anche se il nome richiama soprattutto quello del liquore, stupefacente bevanda, la fata verde dei poeti maledetti, l’assenzio è prima di tutto una pianta medicamentosa. Il nome dialettale in genovese è mêgo, che significa medico, oppure magiô, cioè mago, guaritore. Non c’è nulla che l’assenzio non curi, dai calcoli biliari alle contusioni, dai vermi ai reumatismi, l’inappetenza e la stitichezza, l’ipertensione e la febbre. Naturalmente occorre sapere come e quanto utilizzarne. Per l’ipertensione un infuso di foglie molto diluito o decotto di foglie e fiori, per contrastare il senso di vomito decotto per 5 minuti nella dose di un bicchiere al mattino e uno la sera, contro le febbri malariche, occorre un decotto nel vino, da assumere filtrato. Perchè l’assenzio contiene tujone, sostanza tossica, ad azione epilettogenica, che per uso prolungato provoca degenerazione irreversibile delle cellule cerebrali. Dottor Jeckill e mister Hyde, il medico guaritore si trasforma in avvelenatore. Ma questo, che piaccia o no, è principio basilare di tutta la fitoterapia, e anche della farmacologia intera.

Artemisia verlotiorum

Artemisia verlotiorum

L’assenzio non è che una delle tante artemisie che popolano i prati. La più comune è Artemisia vulgaris, usata per alleviare i dolori del parto, ma anche come abortivo. L’artemisia comune è simile come una goccia d’acqua a un’altra artemisia, esotica invasiva, Artemisia verlotiorum, nome che gli assegnò il botanico Lamotte per ricordare i due fratelli Verlot, botanici di Grenoble, che l’avevano studiata. Questo tipo di artemisia si è prepotentemente insediata nei campi e ai margini delle strade dove prima cresceva la A.vulgaris,ma nel mese di agosto si può facilmente distinguere perchè non porta ancora i fiori, che sono già abbondanti sulla A.vulgaris. Le foglie delle due specie sono leggermente diverse e la neofita è meno aromatica. Essendo una delle ultime arrivate, non se ne conoscono utilizzi curativi, ma soltanto come arotimatizzante di liquori.

Delle varie artemisie ho già parlato in precedenza, 27 luglio 2008
Artemisia campestris
Artemisia canforata

Semplice come un giunco

Giunco comune

Giunco comune – Juncus effusus

Il giunco non è solo una pianta, erbacea palustre della famiglia delle Juncaceae, con stelo elastico e foglie cilindriche, è un materiale, un attrezzo, una corda, un simbolo. Sottile come un giunco, elastico come un giunco, giovane come un giunco. Semplice come un giunco. Il giunco comune, Juncus effussus cioè giunco diffuso, cresce nelle zone umide, con i suoi fasci di cannelle verdi interrotte da ciuffi di strani fiori paglierini. Le monocotiledoni sono così, o hanno fiori elegantissimi e nobili, come le orchidee e i gigli, oppure fiori non ne hanno quasi per niente, come le graminacee e le ciperacee.
Eccolo il giunco, snello e robusto sul margine della strada di casa, fra l’asfalto e il rigagnolo che lo abbevera. Da bambina giocavo con quegli strani fusti che hanno all’interno un midollo spugnoso che sembra un’imbottitura, ma al tatto si sfalda, perchè è fatta d’acqua.
Fibra insostituibile per legare viti, pomodori, e altri ortaggi che necessitano di tutore, e poi per intrecciare stuoie e canestri, e contenitori per formaggio, questa specie di giunco potrebbe anche servire cibo fresco ai cavalli, se non fosse che è troppo simile ad altre specie che sono tossiche, come J.inflexus (che però presenta un midollo interrotto, cioè l’imbottitura dentro gli steli non è compatta, ma tratteggiata) e brucarlo potrebbe comportare qualche rischio.
Tutti i giunchi però hanno doti magiche. In molte campagne, in Liguria nella val di Vara, ma anche in Toscana, nella Garfagnana, Toscana, e in Trentino e nel Biellese, i fusti si usavano per ‘segnare’ le verruche e i porri, o per liberare dal mughetto (Candidans albicans) la bocca dei bambini. Naturalmente a farlo era un guaritore che recitava particolari preghiere. Quello che i trattati di etnobotanica non ci dicono è perchè proprio il giunco, una pianta utile, ma negletta, che cresce nel fango. Nè ci tramandano le parole magiche dell’antica saggezza, che andrà ormai inesorabilmente perduta.

Ho già parlato in un post precedente di un giunco urbano non meglio identificato.

Bocca di leone, pioniera dei muri

Bocca di leone

Bocca di leone –  Antirrhinum majus

 

Ecco la bocca di leone, con i suoi fiori vistosi e colorati che spalancano vogliosi le fauci per accogliere gli insetti.

Antirrhinum majus, questo il suo nome ufficiale, in passato era classificata nelle Scrophulariaceae, mentre oggi è inserita nella famiglia delle Plantaginaceae, insieme a varie cuginette a corolla concresciuta, come la linaria (vedi 13 giugno 2008)  che in piccolo le assomiglia. Pianta assai comune, sembrerebbe quasi una pianta dai gusti qualsiasi, cresce in vaso,  in terriccio ricco, sciolto, ben drenato, sole e acqua quanto basta.  Eppure non è proprio così, c’è qualche cosa di più. Provare per credere, o meglio guardarsi in giro per credere. Se può scegliere, non cresce nell’aiuola ordinata, in mezzo alla terra grassa; se di concime organico ha bisogno, deve riuscire a succhiarselo dalle macerie, perchè è quello il suolo che preferisce. In mezzo alle pietre, sugli intonaci sbrecciati, nelle crepe del cemento,  la bellissima bocca di leone nel mese di agosto sboccia irruenta in mezzo ai muri, come sulle famose mura della Malapaga che ricordavo in questo post.  Non teme  l’altezza e allarga il suo cespuglio in mezzo alle pareti, come in questa vecchia casa di Tenda, in val Roya, una affascinante città alpina incastonata anche lei sui versanti rocciosi della Alpi marittime.

Bocca di leone

Bocca di leone –  Antirrhinum majus

L’ho seminata più volte in giardino, un po’ qui e un po’ là, con risultati alterni.  Finchè ho capito e mi sono arresa.  Perchè il posto dove era più a suo agio erano le fessure del cemento e le pietre sconnesse. E ci doveva capitare per caso.

Ripropongo qui destra l’immagine dal mio giardino che già avevo pubblicato (vedi 26 settempre 2009), che mostra da vicino i fiori screziati, perchè le scalatrici di muri a volte sono un po’ troppo lontane per farsi ammirare a dovere.

Albero dei rosari

Albero dei rosari

Melia azedarach o albero dei rosari a Biribiri

Lo chiamano albero dei rosari, perchè i suoi semi, duri e tondi, con cinque costole in rilievo sul guscio legnoso, venivano utilizzati per fabbricare i rosari. I fiori primaverili sono disposti in infiorescenze a pannocchia e sono bianchi o leggermente violetti, circondati da un tubo staminale che ha il colore del lillà. I frutti sono piccole ciliegie biancastre, che alle nostre latitudini compaiono fra i mesi di maggio e giugno e maturano dopo la caduta delle foglie.  Eccolo, spoglio, ma imponente, nel piccolo centro di Biribiri (già rammentato in un post precedente), a pochi chilometri dalla città di Diamantina (Minas Gerais, Brasile), dove sono stata l’anno scorso e di cui ho già parlato.
Il borgo di Biribiri venne fondato da Don Giovanni Antonio dos Santos nel 1876 per insediarvi un’industria tessile. Nel periodo di maggior attività, la cittadina ospitava seicento dipendenti, un generatore di energia elettrica, magazzini, una scuola, una chiesa, un barbiere, un circolo ricreativo e un ristorante. La fabbrica fu dismessa nel 1972. L’insediamento, con i suoi edifici coloniali ben conservati, è oggi un’attrazione turistica mantenuta da un’associazione e fondazione locale. Secondo le mie amiche brasiliane, tuttavia, nella storia di Biribiri c’è qualche cosa di sospetto, perchè non è interamente comprensibile collocare un’industria tessile in un luogo così remoto, con tutte le spese che ciò comporta. Forse l’industria tessile era una copertura per qualche attività assai più redditizia, come la ricerca dell’oro nei vicini corsi d’acqua? Chissà… La fabbrica tessile di Biribiri varrebbe un’investigazione più approfondita.

Tornando all’albero dei rosari, il suo nome scientifico più antico era Arbor sancta, a testimonianza che si trattava di una pianta sacra. Il binomio Melia azedarach gli fu attribuito da Linneo, da Azedarach, nome originale persiano che significa albero nobile, e Melia, dal nome greco del frassino, perchè ha foglie simili a quelle del frassino, composte imparipennate (vedi qui). Nei suoi luoghi di origine, Asia, e di maggior diffusione, tutte le zone tropicali del globo, ha anche molti altri nomi, a seconda delle varietà, albero delle biglie, lillà della Persia, orgoglio dell’India, bacca cinese, albero ombrello e via dicendo. La corteccia, le foglie, ma soprattutto la polpa dei frutti sono tossiche. Tuttavia, da una pianta della stessa famiglia, genere Azadirachta, anche detta Neem, si estrae l’omonimo olio dalle interessanti proprietà antiparassitarie, ed anche per Melia è stato proposto un possibile simile utilizzo.

In Italia si trova come albero ornamentale negli angoli più impensati della città .

Malva muschiata

Malva moschat

Malva moschata – Malva muschiata

Tutte le malve hanno fiori stupendi. Tutte le malve sono specie officinali. Tutte le malve sono piante semplici, senza pretese, più o meno resistenti alle avversità atmosferiche e urbane. Tutte le malve sono piante straordinarie. Per questo scoprirne un’altra, differente da quelle che sono abituata a vedere, mi commuove e delizia.

La malva muschiata deve il suo nome all’odore del muschio, l’intenso e piacevole  profumo che emana. Le sue doti ne fanno una pianta ornamentale, coltivata nei vivai, sia come cultivar bianca (M. moschata ‘Alba’) che rosa (M. moschata ‘Rosea’). E rosa l’ho incontrata, selvatica, sul ciglio della strada provinciale 56 che da Barbagelata (il paese più alto della città metropolitana di Genova) scende verso il passo della Scoglina. Le foglie sono finemente laciniate, come merletti, e questa caratteristica la distingue dalle altre malve che hanno foglie a lamina più compatta.

Malva muschiata

Malva moschata

Malva moschata contiene molti dei principi nutritivi e salutari della malva comune, Malva sylvestris,  da sempre utilizzata come pianta medicinale per affezioni dell’apparato respiratorio, come antinfiammatorio e blando lassativo. Tuttavia mentre Malva sylvestris cresce ormai soprattutto in aree urbanizzate, su suoli fortemente azotati, che sono frequentemente inquinati da metalli pesanti, pesticidi e altri residui,  Malva moschata si trova sui terreni puliti dei prati montani, e questo è il tipo di erba più adatto per gli usi medicinali.

Ginestra dei tintori

Genista tinctoria - Ginestra dei tintori

Genista tinctoria – Ginestra dei tintori

Protagonista dei prati di prima estate (vedi 1 giugno 2008), la ginestra dei tintori è, come tutte le sue omonime (Spartium, Calicotome, Cytisus, Genista, Ulex e via dicendo) il trionfo del colore, del giallo solare di questa stagione. Come le altre ginestre (la parola deriverebbe dal celtico ‘gen’ piccolo cespuglio) è un’erba officinale tossica. Vivamente sconsigliata la ricetta che circolava, non saprei perchè, qualche tempo fa nel web, di ‘risotto ai fiori di ginestra’. Il colore potrebbe essere allettante, ma le conseguenze imprevedibili. Il colore si può più opportunamente catturare, come indica il nome specifico, e usare per tingere tessuti.

Incontro la ginestra dei tintori, una specie piuttosto comune, nel praticello davanti una piccola casa di montagna che per me ha un sapore di magico. Si trova al passo del Fregarolo, valico che separa l’alta Val Trebbia, comune di Fontanigorda, con la val d’Aveto, comune di Rezzoaglio (siamo sull’Appennino in provincia di Genova), a 1200 metri di altitudine, nel mezzo di un’incantata foresta di faggi. Sul valico si trovano un’ottima trattoria, una lapide di ricordo delle lotte partigiane del 1944, e questa piccola casa. L’avevo conosciuta nel 2009, quando si fregiava di un vistoso cartello ‘vendesi’, e ci avevo anche fantasticato un po’ su. Poi l’avevo mostrata in questo post dedicato all’epilobio.

Passo del fregarolo - Ginestra dei tintori

Casa al passo del Fregarolo

Oggi, a distanza di nove anni, l’epilobio è scomparso, non c’è più traccia nè di fiori nè di frutti, rimpiazzato da altre specie, semplici, coraggiose, colorate. Mi chiedo se qualcuno lo abbia estirpato nel tentativo di addomesticare la radura di fronte alla casa, che oggi appare più accudita, con un accenno di sentiero verso la porta; oppure se ci abbia semplicemente pensato la natura, per ragioni sue proprie e imperscrutabili, a cambiare vestito al prato.
Mi rimane quel segreto, irrefrenabile, desiderio di rimanere qui, in questa piccola casa lontana da tutto, così vicina al cielo.

Falsa ortica maggiore

Lamium orvala - Falsa ortica maggiore

Lamium orvala – Falsa ortica maggiore

 

Falsa ortica maggiore o ortica morta (‘dead nettle’ in inglese), cioè priva dell’aggressività cutanea dell’ortica, ecco un’altra versione della pianta che da il nome alla famiglia delle lamiacee, già labiate. Ho già mostrato in precedenza la falsa ortica purpurea, e di quella maculata (14 marzo 2009).

Salvia glutinosa

Salvia glutinosa

 

Questa specia, Lamium orvala, mi è meno familiare. Ma lungo l’alto corso del fiume Trebbia, in una delle valli più selvagge e attraenti del nostro Appennino, la scopro ancora fiorita, con le boccucce dei fiori spalancate e screziate come orchidee. E ancora, sulla strada per Rondanina (siamo sempre nell’alta Val Trebbia), le fioriture sono ancora abbondanti in questo inizio di luglio, ricche, ma più monotone dell’esplosione della primavera. E mentre la falsa ortica maggiore i fiori li ha quasi tutti finiti, la salvia gialla, Salvia glutinosa (già descritta il 28 luglio 2009) è ancora in boccio.

Il lamio è un genere di piante officinali e commestibili (una volta si mangiavano molte erbe che oggi troveremmo troppo rustiche e coriacee per i nostri palati), utilizzato dalla medicina popolare come emostatico, antinfiammatorio, antispasmodico, immunoprotettivo, e persino nel trattamento dei traumi. Queste proprietà sono dovute all’immancabile presenza di flavonoidi, saponine, acidi fenolici, terpeni, mucillaggini, polisaccaridi e tannini. A causa dell’uso tradizionale per la cura delle irritazioni della pelle e degli occhi, è stata recentemente proposto l’impiego di piante della famiglia delle lamiaceae, e in particolare del Lamium album, per ridurre la pressione introculare.
A differenza della sorelle però, la falsa ortica maggiore è utilizzata prevalentemente come ornamentale, per il portamento, le foglie di colore verde brillante e la graziosa fantasia dei fiori. Anche se si fa un po’ di fatica a crederlo, vedendola così, al margine del bosco, quasi sfiorita, semi coperta dalla polvere della strada, all’ombra di fronde sempre più imponenti.

Catalpa fiorita

Catalpa bignonioides

Catalpa bignonioides

Sembra quasi una competizione, quella fra la Catalpa (Bignoniaceae) e la Paulownia (Paulowniaceae), oppure una rincorsa. Quando si incontra uno di questi bellissimi alberi con foglie esagerate, la domanda è d’obbligo: sarà una catalpa o una paulonia? Eppure le differenze sono tante e molto vistose, perchè ogni cosa è grande in queste piante, dal portamento alla fioritura.
Per distinguerle è importante notare quando fioriscono, perchè anche se non ci sono limiti tassativi, e quelche pianta può sempre decidere di fiorire un po’ fuori stagione, il periodo dell’antesi (fioritura) è molto significativo per identificare una pianta. La paulonia fiorisce, brevemente, verso la fine della primavera, talvolta decisamente prima nei luoghi più soleggiati e caldi; ha fiori tubulari tendenti al violetto lilla, più raramente biancorosa. Invece la catalpa ha una fioritura prolungata, che si protrae nel cuore dell’estate. I fiori sono bianchi, di forma più allargata, ma altrettanto attraenti. Ma la differenza più notevole è la forma del frutto, fagiolini per la catalpa, per questo anche detta “albero dei sigari”, e capsule ovoidali quelli della paulonia.
La calura estiva sta lentamente fiaccando ogni fioritura, ma nell’ombrosa alta val Trebbia, nel bel borgo di Montebruno, la fioritura della catalpa resiste ancora e regala un colpo d’occhio davvero affascinante. Un albero importato da lontano, viene dal Nord America, è ormai piuttosto comune e localmente spontaneizzate nel nostro paese; ma come tutte le esotiche avventizie è spesso oggetto di un’osservazione attenta e non troppo benevola da parte dei naturalisti preoccupati della conservazione ambientale.

Patata, forse non tutti sanno che …

Solanum tuberosum - patata a fiori rosa

Solanum tuberosum – patata a fiori rosa

… patata potato pomme de terre Kartoffel batata ecc ecc …

Solanum tuberosum - patata a fiori bianchi

Solanum tuberosum – patata a fiori bianchi

Non avevo mai pensato che avrei pubblicato un post sulla patata (Solanum tuberosum), finchè in quel di Montebruno, ridente paese della alta val Trebbia, ho visto questo bellissimo campo di patate dai fiori rosa. Ignoro di che varietà si tratti, ma certo è differente da quelle più comuni, con fiori bianchissimi, e che nello stesso campo sembrano essere leggermente più indietro nella crescita. Il colore che conta, nel caso della patata, è quello del tubero, della buccia e della polpa, mentre il fiore del S.tuberosum non suscita il ben che minimo interesse. Invece io, incuriosita da questa inusuale fioritura, ne prendo spunto per approfondire.

Forse non tutti sanno che la patata

…  è il quarto vegetale più consumato al mondo (i primi tre sono il riso, il frumento e il mais), coltivata in oltre cento paesi distribuiti su tutte le latitudini, con le condizioni climatiche più diverse, dalle zone prossime al circolo polare artico fino all’estremità meridionale del continente sudamericano

… è un tubero, ovvero una porzione di caule o fusto (no, non è una radice) di forma allungata e globosa in cui si accumulano sostanze di riserva, i tuberi si trovano sottoterra (no, le patate non crescono appese fra le foglie …) e se ne possono raccogliere numerosi dalla stessa pianta

Roccatagliata

Targa sulla piazza della chiesa di Roccatagliata (Neirone, Genova)

… fu introdotta in Europa, ovviamente, dagli spagnoli che avevano conquistato il Perù, e arrivò in Italia nel 1584, portata dai frati carmelitani scalzi, proprio a Genova. Da lì passò in Toscana, nelle valli piemontesi, e poi, ad opera dei valdesi, in Svizzera, Austria e Germania. La Liguria fu la prima regione italiana ad impiegare la patata per preparare purè e gnocchi, nel periodo pre e postnapoleonico, ma non fu facile farla accettare ai contadini. Nel 1792, Michele Dondero, parroco di Roccatagliata, un paese dell’alta val Fontanabuona, dovette mangiare un piatto di patate di fronte a tutti suoi compaesani per convincerli a cibarsene. A lui, come pioniere della coltivazione delle patate, è dedicata la piazza del paese e certamente meritevole fu il suo impegno dato che, come lui stesso racconta, le sue patate salvarono molte famiglie dalla fame e dalla dispersione.

…come altre solanacee, contiene diverse sostanze tossiche (glicoalcaloidi), soprattutto nelle parti verdi, nei fiori, nei germogli, nei frutti e nei tuberi che esposti alla luce si rinverdiscono, come difesa all’essere scoperti. La principale di queste tossine è la solanina, che è presente in minima parte nel tubero (meno di 10 mgr per 100 gr) e concentrata soprattutto nella buccia. Mio padre raccontava che nel campo in Pomerania, dove era prigioniero come IMI nel 1944, la fame li aveva spinti a provare ad assaggiare anche le bucce delle rade patate che avevano a disposizione, ma il risultato fu abbastanza disastroso. La solanina provoca gastroenterite, vertigini, tachicardia e crampi.

… nel XV secolo, gli indios che vivevano sugli altopiani andini coltivavano più di 3000 varietà di patate, un tipo di patata diversa per ogni ambiente. La biodiversità assicurava il successo, se una varietà andava male, ce n’era sempre un’altra che poteva salvarsi. Oggi si tendono a usare poche varietà, con il rischio della monocultura, come quella che provocò la grande carestia irlandese del 1845, causata da un’epidemia di peronospora che distrusse tutti i raccolti.

… mentre esistono migliaia di varietà di patate della specie Solanum tuberosum, distinguibili per la dimensione, la forma e il colore dei tuberi (pelle bianca, gialla, bruna, rosa, rossa, viola, nerastra) il colore e la qualità della ‘pasta’ (bianca, rossa, gialla viola) e la tenuta nella cottura, ci sono anche centinaia di specie di patate selvatiche differenti da S.tuberosum, non impiegate per la produzione,  ma assai importanti come tesoro di diversità genetica. Infatti esse possono presentare geni di resistenza alle malattie e di adattamento a condizioni ambientali difficili, utili al miglioramento della patate coltivate.