Citiso e vulneraria

Cytisus hirsutus

Cytisus hirsutus

Anthyllis vulneraria

Anthyllis vulneraria

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Due piante incontrate oggi nel bosco, in una giornata incerta e nebbiosa, la prima, il citiso, sui 500 metri di altitudine (località Prato Sopralacroce, Borzonasca), la seconda, la vulneraria, quasi a 1000 metri (passo del Bocco).  Due fabacee molto simili all’apparenza. Fra le similitudini, oltre ovviamente alla famiglia, e quindi la forma del fiore, il colore e anche una certa pelosità del calice, da cui prende il nome Anthyllis (dal greco iulus, peluria) e l’aggettivo specifico di Cytisus hirsutus.
Di Cytisus ne esistono veramente molte specie, ne conto quasi quaranta in IPFI di actaplantarum, tutte piccole ginestre, con foglie a tripletta, come i trifogli (genere Trifolium) e le erbe mediche  (genere Medicago).  Fra essi si può annoverare anche il maggiociondolo, che tuttavia viene attribuito più precisamente al genere Laburnum (vedi anche 29 maggio 2009).
Anthyllis vulneraria è invece ricca di sottospecie, i libri la definiscono specie polimorfa, con fiori di diversi colori dal rosso al bianco, fino al giallo. L’aggettivo specifico, vulneraria, con cui è conosciuta nel linguaggio comune, si riferisce all’uso tradizionale e quasi leggendario di questa pianta per la cura delle ferite. La disposizione dei fiori e il numero e la forma delle foglie la differenziano in modo inequivocabile da Cytisus.

Rebutia, questa sconosciuta

Rebutia violaciflora

Rebutia violaciflora


Tutto è cominciato circa quindici giorni fa. La piccola cactacea che cresce in mezzo a una ciotola, ben riparata su un ripiano nella serra, ha cominciato a fiorire. Fiori straordinari, di colore lilla intenso, petali lisci e appuntiti, stami dorati. Qui a destra è una scatto del 21 aprile, quando ancora pensavo ancora si trattasse di una mammillaria, dato che la mia ignoranza in fatto di cactacee è profonda. Poi, pochi giorni dopo, cominciano ad aprirsi degli altri fiori, simili per molti versi, ma di brillante colore arancione. E’ possibile, mi chiedo, che una pianta faccia fiori diversi? Oggi l’arcano è svelato consultando ben due forum specializzati in cactacee. Le piante sono delle rebutie e si tratta sicuramente di due specie diverse che crescono accanto e che, tutto mi fa pensare, mi sono state vendute insieme, quasi fossero una pianta sola. Purtroppo non mi ricordo affatto nè quando nè dove le ho acquistate e forse non le avevo neppure considerate troppo, devo ammetterlo, prima di questa magnifica primavera.
Rebutie

Le due rebutie

Non sono certa di che specie di tratti. Quella con i fiori viola potrebbe essere R.violaciflora, mentre per l’altra mi è stato proposta la specie R.laui. Su uno dei miei libri guida, a cui mi piace fare riferimento piuttosto che nell’infinito intrico di informazioni del web, il manuale del Reader’s Digest “Piante in casa”, Milano 1981, sono citate almeno 20 specie di Rebutia, ma descritte soltanto cinque, fra cui R.minuscola, di cui si conoscono due varietà, R.m. var. grandiflora, con fiori rossi ed ampi e R.m. var. violaciflora, con fiori violetti, più arcuati e più precoci. E’ comunque difficile distinguerle con precisione e per il momento mi accontento del genere. Tuttavia sono preoccupata, il libro dice che le rebutie hanno vita breve, e che piante anche relativamente giovani possono letteralmente fiorire fino a morirne. Mi è accaduta una cosa del genere con una Schlumbergera, il cosidetto cactus di Natale, che si era coperta di fiori in modo vistosissimo, ma non è sopravvissuta a lungo quando i fiori sono terminati. Spero che le mie rebutie siano ancora abbastanza giovani da regalarmi qualche altra fioritura.

Persicaria capitata

persicaria capitata

Persicaria capitata

Piantina ‘scoperta’ nel buco di un muretto lungo la strada di Lorsica, piccolo comune dell’entroterra in val Fontanabuona. Di Lorsica dovrei parlare a lungo per molti aspetti interessanti che la riguardano. Ora però parlo di questa piantina. La vedo e penso che non l’ho mai incontrata prima e le sue infiorescenze rosa, compatte e grassocce, mi fanno pensare a una pianta grassa, magari addirittura messa a dimora apposta sul bordo di un giardinetto. Ma mi avvicino e capisco subito di aver preso un abbaglio, la pianticella è certamente spontanea, rampante, chissà da dove viene. Le foglie acute, con impronte nere, i fiorellini rosa arrootlati come pallini, ricorda troppo la persicaria (già mostrata con il nome di Polygonum persicaria  il 13 agosto 2009) per poter pensare a qualcosa d’altro.

Persicaria maculosa

Persicaria maculosa (foto agosto 2009)

 

 

Ma dalla persicaria comune (oggi detta Persicaria maculosa, proprio a causa della macchie nere sulle foglie, vedi foto a sinistra) è anche diversa, foglie più piccole e leggermente più tondeggianti, fiori tondi (da cui l’aggettivo capitata, a forma di capocchia) e portamento strisciante.  La nuova persicaria tecnicamente è una neofita naturalizzata e viene, manco a dirlo, dalla Cina o giù di lì. Una pianticella qualsiasi, che non serve a niente e neppure è particolarmente attraente. Però girovagando qua e là, sulla rete naturalmente, si trova, nel curioso sito Earth Medicine Institute , che qualche proprieta medicinale ce l’ha e la medicina cinese la indica per le affezioni gastro-intestinali, ma anche per la cura di ferite e lacerazioni cutanee. Salvo mettere in guardia di non piantarla troppo vicino a foreste vergini, perchè è molto molto invasiva. E’ già a Lorsica, arriverà presto anche nel mio giardino.

 

La rosa dei Cherokee

Rosa laevigata

Rosa laevigata

La rosa dei Cherokee – Orto botanico di Genova

Questa splendida, delicatissima rosa è originaria del Sud Est asiatico, ma è diventata il fiore simbolo dello stato americano della Georgia. Essa è anche il simbolo del sentiero delle lacrime, the ‘Trail of tears’, la strada lungo la quale furono deportati i nativi americani dalle loro terre di origine nel Sud Est degli Stati Uniti fino ai territori indiani dell’Ovest, nell’Oklahoma. I Cherokee furono la tribù che resistette più a lungo di tutte all’imposizione di abbandonare la loro terra e furono anche quelli che soffrirono di più nel viaggio verso l’esilio. Quasi un quarto della popolazione perì lungo la strada. La leggenda racconta che bianche rose delicate sbocciarono lungo il sentiero delle lacrime, sette petali come il numero dei clan della tribù, bianchi come le lacrime delle madri e gialle in centro come l’oro che gli Yankee portarono via agli indiani.

Ficodindia e acetosella

Opuntia ficus-indica

Opuntia ficus-indica & Oxalis pes-caprae

Li incontro spesso accoppiati in questa stagione, l’Opuntia ficus-indica (vedi anche 29 agosto 2008)e l’Oxalis pes-caprae, comunemente nota come  acetosella gialla (vedi 26 gennaio 2010 e 29 gennaio 2012). In questa stagione ancora intirizzita, anche se già respira di primavera, uniti davanti al mare, a succhiarne l’aria frizzante e amara, sulla scogliera di Quarto dei Mille.

(cliccate sull’immagine per vedere la fotografia più grande, in un’altra scheda)

Un’epatica, o meglio due

Epatica Hepatica nobilis

Hepatica nobilis

La primavera bussa sempre più forte e sul bordo della strada, al confine fra la spazzatura e il bosco, ripido e ancora spoglio, fanno capolino cespi di epatiche dagli stupendi fiori blu. La loro fioritura è brevissima, dura appena poco più di una settimana e segna inequivocabilmente l’inizio della nuova stagione. La parola epatica naturalmente ha prima di tutto a che fare con il fegato e già è difficile capire che cosa c’entri il fegato con le piante, se non per le proprietà curative di alcune di esse. La ragione per cui questa bella ranunculacea ha questo nome così poco poetico non è univoca, ma spesso ricondotta alla forma della sue foglie, trilobate, la cui forma, e il colore rosso viola che assumono quando invecchiano, ricorderebbe quella del fegato. Ho già parlato di questo fiore, che preferisco chiamare erba trinità, il 15 marzo 2009 e anche delle sue foglie.

Epatica Conocephalum conicum

Conocephalum conicum

C’è un’altra pianta, o meglio una grande categoria di piante, che ha lo stesso nome, epatica, ma è molto differente in sotto ogni aspetto. Le epatiche sono una divisione di piante non-vascolari, quindi affini ai muschi, sono piante antichissime e dotate di un sistema riproduttivo primitivo. Crescono nei luoghi umidi, spesso sono appiattite e assomigliano ad alghe. Questa pianta l’ho trovata sul bordo di un vecchio lavatoio abbandonato. Provo a darle un nome, Conocephalum conicum, sempre con il grande aiuto degli esperti di actaplantarum, quindi della famiglia della Conocephalaceae, divisione Marchantiophyta, nome scientifico moderno per le epatiche. naturalmente non ne ho la certezza, non ho interpellato luminari e me la tengo come curiosità. Tralascio anche le complesse questioni di classificazione, ma perchè mai queste piante ancestrali si chiamano epatiche? Questo nome pare sia generato da una serie di equivoci e da una millantata utilità di queste piante, e in particolare Marchantia polymorpha come efficaci rimedi nelle malattie del fegato. Questa leggenda sarebbe originata dall’antica dottrina della segnature secondo la quale la forma delle piante era un’indicazione della loro efficacia terapeutica a vantaggio dell’organo a cui assomigliavano. L’esempio più semplice di questa teoria è quello del gheriglio di noce il cui aspetto contorto richiama le convoluzioni cerebrali e quindi dovrebbe essere benefico per il cervello.
L’aspetto della marchantia e delle altre epatiche ricorda il fegato? Allora al fegato fa bene. Peccato che ci sia poco riscontro in queste due osservazioni, la forma del fegato è così approssimata che quasi ogni specie vegetale potrebbe assomigliargli, e la dottrina delle segnature è una scorciatoia un po’ ingenua per la ricerca di piante officinali. Un altro equivoco viene poi generato da un errore vero e proprio denunciato dal grande botanico ed erborista Fuchs (quello della Fuchsia, vedi 7 ottobre 2009) che si indigna contro gli scrittori che hanno attribuito a queste piante il nome di epatiche come curative del fegato, quando gli antichi Plinio e Discoride innanzitutto non hanno mai accennato ad alcun uso interno, ma soltanto all’utilizzo esterno come unguento. Un unguento per curare il fegato? Non direi proprio, ha ragione Fuchs, meglio non fermarsi alle apparenze.

Iris blu

Iris reticulata

Iris reticulata

Iris reticulata

Iris reticulata  “Katharina Hodgkin”

Il giardino si risveglia, piano piano dopo i crochi gialli ora è la volta degli iris blu. Il nome scientifico, credo, è Iris reticulata e i bulbi vengono dalla Polonia, così devono aver sperimentato freddi assai più rigidi di quello di questo umidissimo inverno ligure. Ma si sono riprodotti parecchio dall’inverno scorso e ora sono sbocciati a mazzi, tappezzando gli angoli delle aiuole. Predominano quelli blu carico, veri principi di fine inverno. Finchè ne sboccia un altro, della varietà più pallida, un po’ staccato dagli altri, ma non meno sorprendente e raffinato. L’ho battezzato affettuosamente ‘il brutto anatroccolo’, pensando allo splendido cigno.
Infatti, nel giro di pochi giorni, mentre i primi iris blu cominciano inesorabilmente a sfiorire, quelli pallidi celestini si moltiplicano rapidamente e l’aiuola, come si conviene in un giardino che si rispetti, ha già cambiato colore.

 

Aggiornamento del febbraio 2019

Il ‘brutto anattroccolo’ sarebbe in realtà la splendida varietà di iris nano Katharine Hodgkin “…vistosamente striato, da molte persone scambiato per un’orchidea”. Non faccio pubblicità a nessun rivenditore, quindi ecco qua, e pure in inglese.

Elleboro

Elleboro - Helleborus foetidus

Helleborus viridis

Fra le sterpaglie e le foglie accartocciate del sottobosco spoglio, l’elleboro è uno dei primi fiori a far capolino, con le sue infiorescenze giallo verdi, pallide e delicate. Oggi questo genere di fiori è assai ricercato dai fioristi e nei vivai, soprattutto nella varietà Helleborus niger, noto come rosa di Natale, che, a dispetto del suo nome è bianchissimo, oppure Helleborus orientalis, con affascinanti varianti di colore.

Nei boschi, si incontrano più facilmente le varietà spontanee di Helleborus viridis (a sinistra), dai grandi fiori solitari, e i cespi di Helleborus foetidus, elleboro puzzolente (a destra, Canate, gennaio 2007). Helleborus foetidusQuelli che sembrano petali sono in realtà sepali bianco verdastri, disposti a forma di tazza capovolta, talvolta con sfumature rossiccie ai margini. Le foglie sono spesse, palmate, nell’H. foetidus sembrano sottili mani dalle molte dita (vedi 25 gennaio 2009).

Il nome del genere ha senza dubbio origine greca, secondo actaplantarum è semplicemente il nome del fiume presso la città di Anticira, dove cresceva l’H.orientalis, pianta usata per curare la follia. Più che la pianta,  le antiche leggende greche tramandano che fosse il latte di capre e pecore che dell’erba elleboro si erano cibate ad essere magico medicamento non solo per le malattie della mente, ma anche per molti altri malanni. Secondo altra fonte(1), il nome elleboro deriva da due termini “helein” che significa uccidere e “bora”, pascolo nutrimento, ovvero “cibo che uccide”, sinistra allusione al fatto che la pianta è certamente velenosa, come numerosi suoi parenti della famiglia delle ranunculaceae. Anche i nome delle specie, lividus, niger, foetidus non sono molto elogiativi. H. foetidus deve il suo aggettivo all’odore non proprio garbato che emana attraverso ghiandole presenti nelle foglie e nel fusto. Non ho mai sentito quell’odore, ma pare che io non sia la sola, ormai gli odori antichi sfuggano alle nostre moderne narici. E così, mentre mitologia e tradizione popolare hanno per secoli e millenni attribuito agli ellebori fantasiose virtù magiche e curative, da tempo essi non sono più considerati piante medicinali, anche perché si sa che contengono due glucosidi, elleborina e elleboreina, mortalmente tossici.
Piante molto note ed ammirate perché fioriscono d’inverno,  gli ellebori furono definiti “uno dei benefizi della natura per adornare la mesta nudità dell’inverno”. In sintonia con gli antichi usi officinali, gli ellebori assumono il valore simbolico di “follia d’amore”, ma anche di purezza, tanto che in alcune regioni d’Italia sono chiamati ‘fiori di Sant’Agnese’.

(1)G.Nicolini e A.Moreschi – Fiori di Liguria, Edizioni SIAG, Genova, senza data

 

Kokopelli

Kokopelli

Kokopelli, spirito della musica e della fertilità

Niente fiori oggi, ma una cartolina che ho ricevuto qualche giorno fa dagli Stati Uniti. E’ una delle figure più comuni nelle incisioni rupestri del Sud Est, risalenti fino all’anno 1000. Kokopelli è una divinità della fertilità, dell’uomo e del suolo, rappresentata come un gobbo che suona il flauto e venerata dagli indiano Navajo e da altre antiche popolazioni di quelle regioni (oggi Utah, Arizona, New Mexico e Colorado). Kokopelli è il protettore di nascite e raccolti, ma rappresenta anche lo spirito della musica. Viene raffigurato frequentemente insieme a animali selvatici prede di caccia perché era il guardiano anche della loro riproduzione.
Kokopelli è anche il nome di un’associazione francese che ho conosciuto a una fiera di piante diversi anni fa. Un’associazione per la salvaguardia e la custodia dei semi. Costudire i semi non consiste nel catalogarli in ordine in un cassetto. Costudire i semi significa piantarli, farli germogliare e crescere, fino a che la pianta fiorisce, fruttifica e produce nuovi semi. E’ un compito niente affatto da poco, direi piuttosto impegnativo. Per gioco mi hanno regalato dei semi dell’atreplice biondo, uno spinacio selvatico rustico e dolce. Ma io, distratta, sono già due anni che non li ho più seminati e oggi sono corsa ai ripari. Anche se l’inverno non è ancora finito, anche se dovrò forse aspettare mesi prima di vederli spuntare, sono erbe di prato e ho fiducia che non mi lasceranno sola.