Galinsoga

Galinsoga

Galinsoga parviflora

Persino in una giornata d’autunno, livida e plumbea, persino nel cuore della città cianotica,  basta poco per tornare a stupirsi e inciampare in un fiore dimenticato.
Piccole margherite sbocciano in un’umida aiuola nel parco di Villa Imperiale, Genova quartiere San Fruttuoso. La galinsoga, il cui nome deriva da quello di un botanico spagnolo del diciottesimo secolo, Martinez de Galinsoga, è pianta esotica, di origine sudamericana. Portata in Europa nel 1800, e in Italia nei giardini botanici di Firenze e Padova, si è velocemente diffusa come avventizia in praticamente tutta la penisola, diventando un’infestante molto comune.  In realtà ne esistono due specie, Galinsoga parviflora e Galinsoga ciliata o quadriradiata, ma le differenze sono così sottili che non mi addentro nel problema della loro determinazione. Dico solo che mi pare probabile che la specie fotografata sia G. parviflora perchè è scarsamente pelosa, quasi glabra, a differenza di G. quadriradiata. Inoltre G. parviflora ha fioritura più tardiva e prolungata ed è più comune in Liguria. Pronta a smentirmi, naturalmente.  Felice comunque di aver fatto la conoscenza di una nuova piccola stella autunnale, minuta, robusta, invadente, spavalda.

foto dicembre 2008, originariamente pubblicata il 3 dicembre 2009

Ligustro

Ligustro

Ligustro
Ligustrum lucidum

Poco è rimasto sugli alberi spogliati dalla stagione, dalla pioggia, dalla grandine e dal vento.  Eppure gli irriducibili esistono, e sono più numerosi di quanto sembra a prima vista.  Ecco il ligustro, Ligustrum lucidum, un albero cinese. Siccome non perde le foglie, è alto e lussureggiante ed ha un periodo floreale insolitamente lungo, viene coltivato largamente in parchi e giardini.
Nonostante gli abbondanti fiori bianchi, fragranti e decorativi, nonostante la generosità con cui riempie i grigi spazi con il suo verde intenso, lucido, appunto, nonostante la sua grande tolleranza a tutte le avversità e torture che gli vengono inflitte dalla vita cittadina, il ligustro, chissà perchè, non incontra la simpatia di molte persone. Sarà che sembra un po’ finto, sarà che, come l’ailanto, “ce ne sono troppi”, saranno le bacche nere che lordano i marciapiedi, il ligustro è un albero invisibile, non considerato.   Accetteremmo di più il Ligustrum vulgare o olivella (la famiglia è quella delle Oleacee), autoctono nell’area mediterranea, le cui foglie arrossiscono cupamente d’autunno prima di cadere. Ma non sarebbe altrettanto resistente, e persistente, e decorativo. Nè ci capiterebbe di incontrare questa profusione di frutti nel cuore dell’inverno.

Non mi piace l’inverno. Devo dirlo forte per farmi coraggio. Odio l’inverno. Tuttavia sarebbe bello l’alternarsi delle stagioni se si potesse vivere semplicemente contemplando la natura che cambia. Alzarsi con la luce e chiudere le imposte di casa sulle tenebre. Accendere il camino e attingere alle provviste diligentemente organizzate nella buona stagione. Non attraversare oggi giorno la città buia e maleodorante, per ore nella ferraglia, attraverso nastri di catrame lucido, per raggiungere qualche nonluogo, dove fare noncose, scambiare nonparole, per uniformarsi ai nonsensi di una troppo complicata organizzazione sociale. Sperando solo, magari, che almeno brilli il sole.

Fotografato a Sant’Eusebio, dicembre 2008, e  originariamente pubblicato il 16 dicembre 2008

Pittosporo

Pittosporo

Pittosporum tobira

Dopo un mese di pioggia intensa, l’autunno già scivola nell’inverno. Oggi il cielo è terso e immobile sull’orizzonte, ma l’aria è già frizzante. Non c’è grande scelta di piante rigogliose e fiorite in questa stagione dimessa. Ripasso le immagini del vecchio blog che voglio riproporre, fra le immagini di altri dicembre, umidi, limpidi e gelidi, vividi e colorati.

Figlia della città come sono, il pittosporo, piccolo albero di origine cinese così frequente nei giardini urbani, è una mia vecchia conoscenza. Ho imparato a riconoscerlo molto presto, perchè lo incontravo dovunque. Lo riconoscevo meglio del leccio e dell’alloro, altrettanto comuni nei giardini, ma anche piante tipiche della regione mediterranea.  Il pittosporo invece è un immigrato e non si trova mai allo stato selvatico.  Tollerante di quasi tutte le avversità del clima cittadino, è coltivato come specie ornamentale e viene usato soprattutto  per formare siepi.  Le foglie, persistenti, coriacee, sono lucidissime e hanno un odore arcano, se spezzate e strofinate, un odore che non mi dispiace, ma so che non sempre può risultare gradito.  I piccoli fiori invece, cinque petali bianchi tendenti al giallo, disposti a infiorescenze a ombrella, hanno il profumo dolcissimo delle essenze orientali.  I frutti sono pallette verdi, che diventano bianche e sempre più gialle, fino a che si spaccano e lasciano uscire i semi, color rosso acceso, immersi in una resina collosa da cui deriva il nome della pianta (come si legge su Wikipedia, da pitta che vuol dire pece e sporos seme).  Ed è proprio adesso la stagione della ‘schiusa’ dei frutti; e così in mezzo alle foglie, sempre verdissime, compaiono tanti punti rossi.

(Il post originale era stato pubblicato il 14 dicembre 2008)

Ipê, i colori del Brasile d’inverno

Ipê rosa

Ipê rosa
Handroanthus impetiginosus
parco Ibirapuera, San Paolo (Brasile)

 

Un albero che è quasi il simbolo del Brasile e si presenta in diversi colori, sempre molto appariscenti.
L’ipê rosa  è il nome che viene comunemente attributo all’Handroanthus impetiginosus, anche se ci sono discordanze di nomenclatura e spesso viene chiamato anche  Tabebuia impetiginosa, che è sinonimo.  Il suo legno è molto duro, difficile da lavorare, ma utile nelle costruzioni. Talvolta viene confuso con il legno brasile, ‘pau brasil’ in portoghese; ma quest’ultima è specie molto differente, la Caesalpinia echinata, da cui fra l’altro deriva il nome del paese.

In Brasile l’ipê è un albero molto comune, con molti soprannomi. Handroanthus impetiginosus  fiorisce in inverno e fra giugno e luglio è facile imbattersi nelle sue nuvole rosa, passeggiando per i viali di San Paolo, come ho già mostrato qui.

Ipê rosa

Ipê rosa
Handroanthus impetiginosus
orto botanico di Palermo

E’ stato durante un autunno italiano, invece, che ho incontrato, non senza sorpendermi, le sue chiome frondose.  Senza fiori, ma cariche di frutti, lunghi bacelli che ricordano come la pianta sia della stessa famiglia della Bignonia,  naturalmente in uno dei luoghi più tropicali del nostro paese, l’orto botanico di Palermo.

Anche l’esuberante ipê giallo, l’ ipê-amarelo-da-serra (Handroanthus albus), fiorisce durante l’inverno tropical australe, ma un po’ più avanti nella stagione. Infatti avevo fatto la sua conoscenza la prima volta che andai in Brasile, nel lontano agosto 1979. E’ visibile nello sfondo di questa vecchia fotografia, alle spalle di quella bimbetta con la camicia rossa, ancora incredula di aver attraversato l’Atlantico tutta da sola.

ipê-amarelo-da-serra

Ipê-amarelo
Handroanthus albus

Tutte le specie di Handroanthus sono rosa o gialle, ma talvolta si incontrano degli ipê bianchi, un’affascinante rarità.

Varie specie del genere venivano usate nella medicina tradizionale come antiparassitari, antitumorali e antimalarici. Dalla corteccia si ricavava un the molto amaro, detto lapacho, utilizzato per calmare la tosse; inoltre era considerato un immunostimolante ed efficace contro le candidosi.  Fra i suoi principali costituenti si trovano  tre composti, chiamati rispettivamente  lapachol, α- e β-lapachone, che sono farmaci piuttosto tossici, oggi investigati anche per utilizzo nella chemioterapia antitumorale. Anche questi alberi fanno parte di quell’immenso patrimonio vegetale che ancora ci riserva affascinanti sorprese.

Camepizio

Camepizio

Camepizio
Ajuga chamaepitys

 

Il camepizio è una pianta molto comune, si trova ai bordi delle strade e negli incolti in tutte le regioni italiane,  e fiorisce,  minuta e gialla, da aprile fino a novembre.   E’ una stretta parente delle bugola, Ajuga reptans (18 aprile 2009), entrambe lamiacee robuste e floride, senza essere invadenti.

Il  suo nome specifico, e anche quello volgare (ma talvolta si trova anche canapicchio), deriva dal greco χαμαι, basso, nano e pitus, pino, come dire pino nano, a causa della forma quasi aghiforme delle sue foglie.

 

Imperatoria cervaria

Imperatoria cervaria

Imperatoria cervaria
Cervaria rivini

Un’altra ombrellifera (più correttamente apiacea) abbastanza comune, ma sfuggente, come tutte le ombrellifere a fiori bianchi,  per la fatica che si fa  a riconoscerle.  Inserita fino a poco tempo nel genere Peucedanum  (si chiamava Peucedanum cervaria), ora si è conquistata un genere tutto suo, dall’etimologia un po’ inquietante.  Cervaria infatti deriva  dal latino “cervarium venenum”, erba velenosa citata da Plinio utilizzata per ungere le frecce.  Si tratta di un’erba velenosa? Non sembrerebbe davvero, o per lo meno non di più della maggior parte delle altre.  Le sue ex-parenti del genere Peucedanum sono piante di antica tradizione nella medicina popolare, usate nel trattamento del mal di gola, ma anche dell’epilessia (ho ancora da trovare una pianta non usata nel trattamento dell’epilessia), dei dolori alle articolazioni, e nei disturbi respiratori e gastrointestinali.  In breve, per quasi tutto.
Ma la Cervaria di Rivinus (nome latinizzato di August Bachmann, botanico tedesco del XVII secolo) ormai è un genere a sè, e sembra davvero un’erba un po’ particolare, ricca di ‘acidi grassi molto interessanti’ e ‘rari derivati di cumarine’.  Imperatoria cervaria Le cumarine sono composti aromatici di struttura benzopiranica e dall’odore caratteristico.  L’odore è quello dell’erba tagliata, del fieno, e questo la dice lunga sulla diffusione di queste sostanze, ovunque nei prati.  E’ possibile tuttavia che Cervaria contenga della cumarine tutte sue che ancora ci devono rivelare le loro caratteristiche.  Come tutti i preparati fitoterapici sarà inevitabile che i benefici si mescolino a potenziali pericoli, e che sostanze vitalmente attive debbano essere smascherate nella loro forma più efficace.  Un lungo lavoro, insomma, che la medicina tradizionale  poteva pemettersi di evitare, utilizzando ogni pianta con parsimonia, saggezza, e in combinazione con altre.

Diffusa quasi ovunque in campagna, per ora mi preoccupo di individuare qualche trucco per distinguere l’imperatoria cervaria dalle altre apiaceae. Osservo bene le foglie, pennatosette, ovali con margine seghettato, i piccoli fiori con cinque petali bianchi, e soprattutto i semi, schiacciati, con strette ali, di colore verde che vira leggermente al rossiccio.  La saprò riconoscere?

Riso

Riso Oryza sativa

Oryza sativa
Riso

Riso…devo confessare che vedere questa pianta da vicino, alla mostra mercato di Lucca Murabilia, dove ho scattato questa fotografia, un po’ mi ha commosso.  Non che non la conoscessi, anche se non è proprio un’erbaccia comune, nè particolarmente rappresentata.  La specie coltivata Oryza sativa non cresce allo stato spontaneo, anche se ai bordi delle risaie, nei vasti campi perennemente inondati,  prospera una varietà selvatica, (Oryza sativa var. sylvatica) detta riso crodo, che è una temuta infestante (archeofita invasiva) in tutta la pianura padana.
Il riso merita davvero tutto il nostro rispetto, e riconoscenza,  perchè è una pianta a cui il genere umano deve molto. Non solo è  il cibo principale per circa la metà della popolazione mondiale e viene coltivato in quasi tutti i paesi, ma costituisce uno degli alimenti più versatili e completi, ricco di nutrienti essenziali, salutare e benefico per tutti gli individui e tutte le età. In un certo senso, seppure con qualche piccola integrazione, si può vivere di solo riso ed è anche dimostrato che i suoi costituenti non provocano nessun fenomeno di allergia alimentare (il riso non contiene glutine), rendendolo uno dei cibi più compatibili con il nostro organismo.

Il riso è originario del’Asia, il sud est della Cina, o forse l’India.  Utilizzato in oriente da millenni come cibo,  in Occidente invece,  dai Greci ai Romani, poi per tutto il Medioevo e fino all’epoca rinascimentale, il riso era conosciuto come spezia,  medicamento adatto ad  ogni tipo di patologia o per cosmesi, prima di diventare anche qui, lentamente, ma inesorabilmente, uno degli alimenti più comuni.

Pianta singolare, versatile, ma comunque di origine tropicale,  è molto esigente in fatto di acqua e temperatura, e qui,  dalle parti del 45° parallelo, cresce completamente a bagno,  in un ambiente che simula l’intensa umidità delle sue terre di origine,  al riparo dagli sbalzi termici e idrici. Così, mentre il suo frutto ha tante virtù salutistiche, per i lavoratori, o meglio le lavoratrici, le mitiche mondine, immerse per intere giornate nelle pozze di acqua ferma, infestate da ogni genere di insetti, la semina, il trapianto e la monda del riso rappresentavano una fatica e un disagio immenso. Oggi, mi informa seccamente wikipedia, il lavoro delle mondine viene svolto dai diserbanti.

Conosciuto in numerose varietà, forme e colori, pare che le varietà più salutari siano quelle a chicco scuro, particolarmente ricche di antocianine e polifenoli.

Crocosmia

Crocosmia

Crocosmia

Il colore brillante, i fiori carnosi e ricchi, l’oroginale disposizione sullo stelo, so di certo che si tratta di una pianta coltivata, in un giardino di mezza montagna, vicino a una cascina. Non è amarilli e neppure, sarebbe improbabile, eliconia. Il suo nome è Crocosmia, della famiglia delle iridaceae, come i crochi, da cui presumibilmente il suo nome deriva.

Panace comune

Si fa chiamare panace perchè dovrebbe essere la panacea di tutti i mali, ed effettivamente nei tempi passati quest’erba veniva utilizzata per curare le più svariate affezioni, e anche come pianta alimentare.

Panace comune

Heracleum sphondylium

Ma, come chi conosce le erbe fa spesso osservare, è molto difficile identificare in modo corretto le Apiaceae (ombrellifere) a fiori bianchi, molte delle quali sono assai velenose, come la cicuta maggiore e minore, e quindi la cautela è obbligatorio. Ad eccezione di alcune specie che conosco dall’infanzia, io sono sempre dubbiosa sul nome da dare a tutte queste piante, così simili e così leggermente diverse.  Sarà lei?  Non sarà lei? Come sempre, ci provo.
Il nome scientifico, Heracleum, si riferisce a Ercole, il greco Eracle,  forse per le dimensioni possenti che la pianta può assumere. In inglese si chiama hogweed, che significa letteralmente erba dei porci; non è un gran nome per una pianta alimentare, perchè i porci, si sa, mangiano di tutto.  Le foglie sono ampie, palmate e di forma molto variabile e hanno un glorioso passato nelle zuppe fermentate polacche.

Panace

Foglie di panace comune
(Heracleum sphondylium)
la foglia oblunga sotto i fiori è quella di un’ortica (Urtica dioica) che si è intrufolata nella foto

La lattofermentazione è  molto usata per la conservazione delle verdure nell’Europa dell’Est e se cavoli e cetrioli, ma anche carote e barbabietole, conservate con questo metodo non sorprendono più di tanto, in passato anche molte piante spontanee erano sottoposte a questo processo per consumarle.  Oggi, come ci informa questo interessante articolo, la lattofermentazione delle piante selvatiche, una volta molto diffusa fra le popolazioni slave, è completamente sparita dalle campagne.  Ma la panace, Heracleum sphondylium, menzionata per la prima volta come alimento e come medicina nel 1595,  è stata  anche l’ultima erba selvatica ad essere utilizzata in questo modo in Polonia e Lituania fino al XIX secolo in una zuppa detta barszcz. Lo stesso articolo riferisce di aver trovato almeno due esempi dell’utilizzo della panace in una zuppa affine al barszcz nei Carpazi fino al XX secolo.  Il sistema è semplice:  si mettono fusti e foglie in un’arbanella, coperti di acqua e si lasciano stare per qualche giorno prima di cuocerli nella zuppa. Il metodo però non è standardizzato e certamente richiede, anche per le verdure più usuali, pratica e consapevolezza.

Anche per la panace, toccasana per tutti i mali, c’è il rovescio della medaglia.  A causa della presenza di una sostanza della classe delle furanocumarine, questa pianta può causare reazioni di fototossicità, ovvero provocare irritazioni della pelle, anche severe,  su soggetti sensibili,  specie in caso di esposizione al sole.  Questa caratteristica è comune anche ad altre ombrellifere ed è particolamente significativa in un’altra panace, oggi oggetto di attenzione e preoccupazione, la panace di Mantegazzi, Heracleum mantegazzianum, considerata una specie tossica pericolosamente invasiva.

Salvia ananas

Salvia elegans

Salvia elegans

Ripropongo questo post del 31 agosto 2008.

Ecco un’altra pianta che ha preso in prestito un odore non suo (e un pochino anche il sapore). Originaria del Messico, ha foglie ovali e steli rossicci, e un odore che ricorda quello dell’ananas. E’ una bella pianta da giardino, che poco ha da invidiare alla più conosciuta salvia splendens dagli abbondanti fiori rosso arancio. Si chiama in inglese ‘scarlet pineapple’ e da noi è più nota come ‘salvia ananas’. Inutile dire che con l’ananas non ha niente da spartire, è una labiata come tutte le salvie, mentre l’ananas è un’esotica bromeliacea. Il suo profumo suggerisce di usarla per guarnire le macedonie, ma è apprezzata anche per aggiugnere un tocco insolito a pesce e carni bianche. Il suo fiorellino rosso scarlatto, delicato, ordinato, intenso, è stato una sorpresa in questi giorni perchè non credevo fiorisse più.  Ma lo fa, da giugno a settembre, talvolta (cito il vivaista) anche in inverno. Staremo a vedere.

Purtroppo questa bella pianta non è sopravvissuta al rigido inverno del 2009.