Sorella quasi gemella della più nota Clematis vitalba, faccio un po’ di fatica a riconoscere come clematide fiammella questa bella pianta rampicante di fronte al ‘castello’ del parco di Villa Pallavicini a Pegli (Genova). Sono tornata nella villa dopo quasi cinque anni dall’ultima volta, che risale al 2 gennaio 2010, in una assolatissima giornata invernale che fu preludio a una abbondante nevicata. Eravamo saliti fino alla sommità della collina dove si erge appunto il castello, a quel tempo inaccessibile e pesantemente vandalizzato. oggi una paziente e accurata opera di restauro sta restituendo a questo gioiello di parco romantico la natura scenografica che lo ha ispirato. Il castello è in parte diroccato, ma solo a causa dell’attacco nemico della finzione scenica.
E in un’estate torrida e avara di fioriture, mi saluta all’ingresso questa pianta coperta di gioiosi e delicati fiori bianchi. Proprio come una vitalba. Ma vitalba non è, e quindi comincia la mia solita caccia agli elementi identificativi che per me non riesce mai ad andare molto oltre una goffa osservazione da dilettante. Tutti gli esperti però concordano, clematide vitalba e clematide flammella sono molto molto somiglianti, e le principali differenze risiedono in due precisi caratteri morfologici: fiammola ha foglie bipennatosette, mentre vitalba le ha semplicemente pennate, e i sepali pelosi solo nella pagina inferiore, mentre vitalba li ha pelosi su entrambe le pagine. Semplice no? Niente affatto naturalmente, tanto più che la forma delle foglie di questa pianta in particolare mi confondono abbastanza le idee. Per fortuna mi aiutano le fotografie, ampiamente disponibili in rete, e ne trovo molte con foglie proprio simili alla mia, e che, a dir la verità, di bipennatosette non hanno granchè. Alla fine mi riconcilio con il mondo verde, osservando la grazia modesta e prorompente di una pianta selvaggia, ma non troppo.
La mattanza dell’aconito
L’aconito è una pianta molto velenosa. Ed è anche un fiore incredibilmente bello. Ne ho parlato parecchio in un post dedicato due anni fa (vedi qui), perchè lo avevo incontrato, in modo inaspettato, lungo una stretta carrozzabile di crinale che congiunge la Val Brevenna con Crocefieschi. Una strada magica, da dove il cielo sembra molto vicino. Proprio nell’agosto di due anni fa, percorrendo quella strada senza nome, superato un crinale, lungo una dolce discesa verso il colle vicino, quasi all’improvviso, mi era apparsa un’abbondante fioritura blu che guarniva compatta il bordo dell’asfalto, uno spettacolo imperdibile.
Sono tornata apposta lungo quella strada quest’anno nello stesso periodo per cercare la fioritura di aconito blu. Ho guardato dappertutto, a lungo, ad ogni svolta della strada. Ma non riuscivo a vedere nessun fiore. Mi pareva impossibile che fosse sparito, impossibile che non riuscissi a ritrovare il luogo. Sono ripassata di lì diverse volte in questi giorni di agosto, e ancora non riuscivo a trovarlo.
Poi ho cominciato a notare il profondo intervento di ripulitura che era stato effettuato lungo tutta la strada, un intervento probabilmente ritenuto indispensabile per garantire la praticabilità, ma che aveva reciso e ridotto a monche stoppie tutte le piante fino a qualche metro dal ciglio. E mentre felci, vitalba e rovo si riprendono subito con vigore, lo stesso non si può dire che accada all’aconito, che sembrava inesorabilmente scomparso.
A forza di osservare con attenzione ogni erba sul ciglio, dove due anni fa lo avevo visto crescere così copioso, ho finalmente ritrovato la foglia, e alla fine ho riscoperto nella sterpaglia un paio di fiori blu, seminascosti da una prorompente crescita di steli di equiseto (vedi 6 settembre 2008).
Forse alla lunga l’aconito si riprenderà il territorio, come lo sta facendo l’equiseto, erba preistorica certamente resistente. Ma questo episodio mi ha fatto riflettere su come l’intervento umano, seppure inevitabile, modifichi nel profondo, dall’inizio della storia, l’ambiente e la natura. La pulizia ad oltranza delle strade di campagna favorisce inesorabilmente la diffusione di poche specie resistenti a tutto, che piano piano prendono il sopravvento su tutte le altre, destinate a diventare sempre più rare.
Jaca, frutto esagerato
La jaca, Artocarpus heterophyllus, a volte chiamata giaca in italiano, è conosciuto come il più grande frutto commestibile che cresce su un albero. L’albero, che può essere alto fino a 20 metri, è originario dell’India, del Sud Himalaya o forse Gati occidentali, la catena montuosa della penisola indiana, ma è diffuso in tutte le aree tropicali e ha trovato casa e fortuna anche in Brasile, sulla costa atlantica.
A causa della sue dimensioni, il frutto si sviluppa sui rami più grandi, talvolta persino sulle radici scoperte, ma soprattutto sul tronco; infatti i rami più esili non potrebbero sorreggerne il peso che può raggiungere qualche decina di chilogrammi. Per questo la pianta viene detta cauliflora che significa appunto che porta i fiori lungo il tronco. E’ anche monoica, con fiori maschili, inseminatori, e femminili, che danno origine ai frutti, sulla stessa pianta.
La jaca, preferisco chiamarla così, con il suo nome portoghese con cui l’ho conosciuta, è un frutto dai molteplici usi e qualità. Il sapore varia a seconda della maturazione, conservazione e cottura, ma è sempre gradevole. Zuccherino come il fico (appartiene alla stessa famiglia, le moracee), ha sapore di mela e ananas quando è fresco, ma cambia sapore e diventa una pietanza se cucinato opportunamente. Se ne mangiano anche i semi, simili per gusto alle castagne. Facilmente deperibile, è meno apprezzato il suo odore che può talvolta in ambienti con scarso ricambio d’aria risultare nauseabondo.
Una delle ricette più singolari a base di questo frutto gigante sono le frittelle di jaca (“pastel de palmito de jaca”), piatto tipico del Nord Est brasiliano, in particolare di quella zona dello stato di Bahia che si chiama Chapada Diamantina. Si tratta di vere e proprie focaccette fritte, ripiene delle ‘palma di jaca’, una parte appiccicosa che si trova dentro il frutto e potrebbe rappresentare uno scarto, cucinata come fosse carne di pollo.
Questo frutto ha anche utilizzi medicinali. I frutti, ma anche la corteccia e le foglie di questa pianta sono utilizzati dalle popolazioni del Vietnam, Tailandia e Laos per le proprieta galattagoghe, cioè perchè aumenta la secrezione di latte di donne e animali, mentre il popolo Van Kieu, indigeni del Vietnam, la utilizza come antidoto alla depressione postparto, ma anche per i disturbi della lattazione, la febbre e i dolori addominali.
Il nome del genere, Artocarpus, significa frutto pane e il genere comprende anche Artocarpus altilis, specie nota appunto come albero del pane, detto in sanscrito panasa, da cui il genovese panissa.
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Heliconia
Heliconia è un’affascinante pianta tropicale che prende il nome dal mitico monte Elicone, in Grecia, sacro ad Apollo e alle Muse. E’ l’unico genere della famiglia della Heliconiaceae.
La pianta della foto a sinistra, tutt’intera, cresce in un giardino storico della casa di Chica da Silva, a Diamantina. Non solo la fioritura, ma anche il giardino dove si trova, è sorprendente. Situata a più di 1000 metri di altitudine, nelle montagne del Minas Gerais, Diamantina è una città di origine coloniale, capolinea della storica Estrada Real, un percorso che unisce le regioni minerarie al mare. Chica de Silva visse a Diamantina nel XVIII secolo. Era una bellissima schiava mulatta che conquistò il cuore e la mano del suo padrone, João Fernandes de Oliveira, un ricco commerciante e governatore della città, acquisendo fama e ricchezza come e più di una signora bianca. Nonostante la sua posizione altolocata, non si può dire che Chica de Silva si sia risparmiata, ebbe infatti 15 figli, di cui 13 con João Fernandes. Il loro amore è rimasto leggendario.
Un altra celebre personalità legata alla città di Diamantina è Juscelino Kubitschek de Oliveira, che vi nacque nel 1902 ed è stato presidente del Brasile dal 1956 al 1961. Amico del grande architetto Oscar Niemeyer, concepì e inaugurò nel 1960 la capitale Brasilia, una città nuova, appositamente collocata nelle stato di Goias, al centro del paese.
Tornando alla meravigliosa heliconia, le sue vistose infiorescenze sono costituite da larghe e coloratissime brattee che racchiudono i piccoli fiori. Sono molto resistenti e durature, il che ne fa una pianta ornamentale assai ricercata per i giardini, ma coltivabile anche in vaso e quindi anche in appartamento.
Uno dei suoi nomi comuni in brasiliano, bananeira ornamental, richiama il fatto che la pianta assomiglia abbastanza a quella del banano. Nella specie H.rostrata , le brattee hanno una singolare forma di becco, o rostro. Nella specie H. stricta l’infiorescenza ricorda un poco l’uccello del paradiso (Strelitzia). Infatti Heliconiaceae, Strelitziaceae e Musaceae (le banane) sono tre famiglie di piante affini che appartengono allo stesso ordine, Zingiberales, come lo zenzero e la curcuma (famiglia Zingiberaceae).
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Pepe rosa brasiliano
L’albero del falso pepe o pepe rosa (il pepe vero, quello verde e nero, lo trovate qui) si chiama Schinus, è della famiglia delle Anacardiaceae e viene dall’America. Fra le specie più comuni di questo genere c’è Schinus molle (vedi 13 settembre 2009), che si è diffuso parecchio anche sulle sponde del Mediterraneo, almeno come specie ornamentale e si incontra facilmente nelle località italiane della costa. Un’altra specie, molto simile, ma con le foglie incredibilmente simili a quelle del terebinto (vedi 14 ottobre 2008) si chiama appunto Schinus terebinthifolia e l’ho visto soltanto in Brasile. In America del Nord, ma anche in Australia e Sud Africa, quest’albero del pepe brasiliano è considerato una specie invasiva e la sua diffusione è combattuta per legge in Florida e in Texas, nella provincia del KwaZulu-Natal in Sud Africa e in diversi stati dell’Australia. Vengono forniti precisi protocolli con gli erbicidi più idonei per sterminarlo (di cui uno manco a dirlo è il famigerato glifosato).
In Brasile si chiama aroeira e i suoi semi rosati sono un succedaneo del pepe. Inoltre, in contrasto con i persecutori del Nord, questa pianta gode di alta considerazione per il suo utilizzo nella medicina tradizionale descritto anche nel trattato del 1648 Historia Naturalis Brasiliae, opera del naturalista olandese Willem Piso.
Il mio amico Eugenio, architetto bahiano che vive da 10 anni nella Vale do Capão, Chapada Diamantina, mi raccontò come un contadino del luogo aveva curato una ferita della figlia con un cataplasma di bacche di aroeira, e di come la ferita si fosse rimarginata in un tempo magicamente breve. L’aroeira viene inoltre indicata come rimedio per l’artrite, la febbre e i reumatismi. Le sue proprietà antiseptiche e antinfiammatorie le derivano dal potere antimicrobico che è dimostrato anche in vari studi. Per esempio, ricercatori della Georgia e dell’Iowa ne hanno mostrato l’efficacia contro batteri resistenti agli antibiotici(1), mentre un’altra ricerca, brasiliana questa volta, mostra come l’olio uccida le larve di Stegomyia aegypti, la zanzare che diffonde la febbre virale dengue(2). Ecco quindi che per alcuni il pepe rosa brasiliano è un’invasiva da sopprimere, un erbaccia, e per altri è uno scrigno di rimedi essenziali. Forse basta che cresca nel suo ambiente, e non in altri. Dobbiamo augurarci o no che prima o poi invada l’Europa mediterranea?
(1)Sci Rep. 2017 7:42275. doi: 10.1038/srep42275
(2)Parasit Vectors. 2015 8:136 doi: 10.1186/s13071-015-0746-0
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Igname o yam, tubero tropicale
L’igname è un tubero commestibile coltivato nei paesi tropicali. Ma che cos’è veramente? Il tubero non è una radice, è una porzione di fusto, generalmente sotterraneo, in cui certe piante immagazzinano nutrienti e sostanze essenziali, come amidi e zuccheri. In portoghese, la parola “inhame” designa vari tuberi commestibili che appartengono a piante di genere molto differente come Dioscorea, Alocasia, Colocasia, Xanthosoma, e Ipomoea. Difficile mettere ordine nei nomi comuni e nel loro uso regionale. Italianizzo il termine in igname o yam e cerco il bandolo della matassa.
Alocasia e Colocasia (famiglia Araceae, come il gigaro e la calla) forniscono un tubero denominato taro che viene consumato essenzialmente nelle isole tropicali di Asia e Oceania. Alle nostre latitudini, ma anche in Brasile apparentemente, queste piante sono utilizzate soprattutto come ornamentali e note con il nomignolo di orecchio di elefante.
C’è poi l’Ipomea batata (famiglia Convolvulaceae, vedi 22 luglio 2008 ), che è diversa dall’igname e viene chiamata patata dolce, o addirittura patata americana. Questa denominazione mi fa sorridere perchè la più famosa patata, Solanum tuberosum è americanissima anche lei in origine, prima di trasformarsi nell’alimento principale di gran parte dell’Europa. Invero la cosidetta patata dolce è rimasta quasi soltanto americana e questo potrebbe giustificare appunto il suo nome.
L’igname brasiliano, detto anche carà, è ricavato da piante della famiglia della Dioscoreaceae. Esistono 600 specie diverse di Dioscorea, ma soltanto 14 hanno usi alimentari, tutte comunque originarie di Asia e Africa e importate in America in tempi relativamente recenti. C’è molta confusione nella terminologia come sempre accade per vegetali di grande uso alimentare, ognuno li chiama a modo suo, come era abituato nella propria famiglia e la confusione dell’uso casalingo diventa confusione nell’uso pubblico. C’è voluto addirittura il pronunciamento di una congresso, dedicato a inhame e taro, che ha stabilito, nel 2002, che l’ortaggio conosciuto come ‘inhame’ nel Sudest, Centro e Sud del Brasile è in realtà il taro, rizoma della Colocasia esculenta, mentre i tuberi del genere Dioscorea, che in precedenza venivano chiamati carà nelle regioni sopra menzionate e inhame nel Nordest debbano essere definitivamente designati da tutti come inhame.
Il gusto di questo tubero, che va consumato cotto, è molto simile a quello della patata, anche se la consistenza è leggermente più porosa. Le sue qualità nutrizionali e salutari sono notevoli, anche se la caratteristica farmacologica più peculiare del genere Dioscorea è la presenza di una molecola, la diosgenina, molto simile strutturalmente all’ormone progesterone e utilizzata per fabbricare le prime pilole anticoncezionali.
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Canna da zucchero, non una canna qualsiasi
Una canna è una canna, un lungo e solido bastone che si piega e resiste al vento, e seccando può diventare sostegno per la lenza, impalcatura, appoggio, asta per le bandiere. Una canna qualsiasi come Arundo donax o come l’esotico e prepotente bambù, Phyllostachys aurea (22 dicembre 2008).
Poi c’è la canna dolce che accumula zucchero nella sua linfa e lo zucchero restituisce quando la spremi. Nei paesi tropicali dove cresce abbondante e generosa, la canna da zucchero si può raccogliere per divertirsi e succhiare il dolce direttamente dal suo midollo.
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Musa, questa sconosciuta
Diversi anni fa (diversi è un’eufemismo per davvero molti), quando stavo in Texas, ho visto per la prima volta una varietà di uva da tavola senza semi, oggi diventata tristemente comune anche in Italia. Dico tristemente perchè, senza nulla togliere alla comodità di assaporare solo il piacere del chicco d’uva, privo degli ignobili semini che si infilano in mezzo ai denti, ho provato fin d’allora un istintivo rammarico, quasi ribrezzo, per quegli acini vuoti, e sterili. Ormai siamo assuefatti, e anche dipendenti, dalla frutta finta in cui la ragione di esistere del frutto è snaturata e sacrificata al suo più importante utilizzo alimentare e soprattutto commerciale. Come dire che i frutti senza semi e senz’anima sono la regola invece che l’eccezione. C’è un frutto in particolare che i semi li ha persi già da tempo immemorabile, trasformato in una bacca sterile per la gioia del palato di grandi e piccini. E’ la banana, nome scientifico Musa, praticamente immangiabile nella sua forma selvatica ripiena di durissimi semi, come ci spiega Alice Breda in un bellissimo articolo del suo blog sulla scienza delle piante. Ma come anche si vede nella fotografia che accompagna l’articolo sulla Musa balbisiana di Wikipedia, un frutto che pochi riconoscerebbero come una banana.
Non c’è pianta più misconosciuta del banano, chiamato per lo più albero, è invece un’erba, si dice la più grande specie erbacea che cresca sulla terra. Le ampie foglie sono una vista non inusuale nei giardini mediterranei, ma raramente suscitano l’interesse che si meritano. Ricordo una volta, in un parco cittadino, l’incredulità di una signora quando le dissi di che pianta si trattava e lo stupore di riconoscere che avevo ragione quando le ho indicato il casco dei frutti. Frutti difficilmente commestibili alle nostre latitudini e comunque sterili, perchè senza semi. Da secoli il banano si riproduce per trapianto.
Se in Europa, per lo più ne conosciamo soltanto la varietà più importata in occidente al momento (e per scoprire qual è rimando nuovamente all’ottimo post di Alice Breda), come se fosse l’unica esistente al mondo, in Brasile, i mercati ne offrono almeno cinque varietà comuni, oltre altre che si consumano cotte, come quella chiamata “banana di terra” (che cotta è davvero squisita). Io, che non ho molta simpatia per questo cibo, in Brasile ne consumo a bizzeffe.
Avevo già dedicato un post alle banane nostrane, 6 agosto 2009, e devo correggere qualche inesattezza e omissione. Sembra che la denominazione Musa x paradisiaca non sia più utilizzata (magari non lo è mai stata); Wikipedia indica Musa acuminata × balbisiana come denominazione dell’ibrido. Sempre dalla rete, apprendo che in Sicilia, diversamente da quanto scrivevo, esiste una varietà di banane che arriva a una maturazione decente, e si tratta della cultivar rustica comune di Sicilia, peccato che non l’abbia mai assaggiata.
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Falsa mirra
Della cosidetta pianta dell’incenso ho già scritto in passato, e in particolare il 30 agosto 2008 avevo spiegato come il Plectranthus, anche detto edera svedese, con l’incenso non ha niente a che fare, perchè le resine che sprigionano quel magico e sacro profumo sono derivate da piante del genere Boswellia che crescono in Arabia ed in India, mentre Plectranthus è una semplice e graziosa pianticella della famiglia delle lamiaceae. L’odore delle foglie dell’edera svedese è così intenso e caratteristico da trarre in inganno molte persone che non vogliono convincersi che “pianta dell’incenso” è soltanto un soprannome.
Ancora più difficile convincere le amiche, soprattutto quelle brasiliane, dove questa pianta è piuttosto comune, che la Tetradenia riparia sarà pure soprannominata ‘pianta della mirra’, ma con la mirra non ha nessuna parentela. Il terzo dono dei Re Magi a Gesù è da sempre avvolto in un’aura di mistero e non c’è bambino che il giorno dell’Epifania non si sia chiesto, e non abbia chiesto ad altrettanto perplessi genitori: “Ma che cos’è la mirra?” Oggi i misteri hanno risposte semplici e su wikipedia si legge che la mirra è una “gommaresina aromatica, estratta da un alberello spinoso, Commiphora myrrha, della famiglia delle Burseraceae”. Questa pianta cresce in Africa ed Arabia ed ha l’aria di essere assai poco adatta a diventare un’ornamentale.
Invece la falsa mirra è una pianta flessuosa dalla sgargiante fioritura bianca, originaria probabilmente del Sud Africa e ampiamente diffusa nei giardini tropicali o subtropicali. I fiorellini bianchi, davvero molto simili ai fiorellini del Plectranthus (vedi 12 ottobre 2009), ricordano tante piccole boccucce socchiuse, accoglienti per gli insetti impollinatori, come tante altre piante della famiglia delle lamiaceae, che in passato si chiamavano “labiate” proprio per la forma di labbra dei fiori. La falsa mirra è così una parente delle salvie, dell’origano e del basilico, tutte piante caratterizzate da foglie aromatiche, anche se non so di utilizzo culinario della Tetradenia.
La pianta della foto qui sopra cresceva rigogliosa nel giardino botanico di Inhotim, Minas Gerais, candida e lussureggiante, deliziosamente profumata. Più discreta, la pianta della foto a destra l’ho incontrata dell’amico Eugenio, nella valle di Capão, distretto di Palmeiras, Chapada Diamantina, Bahia.
Bauhinia variegata
Dovevo andare in Brasile, il loro ambiente ideale, per riuscire finalmente a vedere e godere dei fiori della bauhinia, un’albero meraviglioso, detto anche albero delle orchidee brasiliane , o più volgarmente Pata-de-vaca, zampa di mucca, per la forma curiosa, bilobata delle sue foglie. Originaria dell’Asia, si è diffuso talmente in America latina da diventare un protagonista della flora ornamentale brasiliana.
Citando il botanico Enrico Banfi : “Ci si aspetta sempre, chissà perché, che al nostro arrivo in qualsiasi terra tropicale ci si parino innanzi splendidi alberi, arbusti, erbe, patrimonio esclusivo o quanto meno indigeno di quell’area geografica, mentre nel 90% dei casi si tratta di entità alloctone che ormai globalizzano le flore dei climi caldi, (…) una vegetazione antropogenica formata da piante pantropicalizzate.”
Mi piace scoprire l’origine delle piante, adoro le piante tropicali e non mi preoccupa che abbiano colonizzato tutto il mondo. In un mio precedente post, in data 9 novembre 2009, che riprendo un pochino oggi, ne avevo mostrato una specie (qui sotto) fotografato all’orto botanico di Lucca e l’avevo addirittura chiamato “albero brasiliano”, perchè quella era certo la provenienza che risultava dalla sua scheda. Ne avevo incontrata un’altra, più a suo agio, nel giardino del Forte Rosso di Agra, non lontano dal Taj Mahal, come descritto nel post del 1 marzo 2010. E finalmente ne avevo fotografato i fiori, bianchi nella specie B.aculeata (originaria, ma chissà, del Perù), nel giardino di villa Hanbury a Ventimiglia nel settembre 2010.
Sembra che Linneo (sempre lui) abbia chiamato questa pianta Bauhinia in onore dei due fratelli John e Caspar Bauhin, botanici svizzeri del XVI secolo, associando alla celebre coppia la doppia foglia di quest’albero. La famiglia è quella delle Fabaceae, in quella che oggi è considerata la sottofamiglia delle Caesalpinaceae, così chiamata da un altro grande scienziato e botanico dello stesso secolo, Andrea Cesalpino.