Palma da cocco

Palma da cocco

Palma da cocco
Cocos nucifera

 

L’origine dell’albero del cocco, la palma da cocco tropicale, è controversa. Alcuni lo vogliono originario dell’India, altri delle isole del Pacifico, mentre altri ancora affermano che viene dall’Africa. C’è chi pensa perfino che in realtà il cocco esistesse in America Centrale prima di Colombo. E’ certo tuttavia che in Brasile, un paese in cui la pianta è diffusissima e ampiamente sfruttata, il cocco è arrivato nel 1533 a bordo di imbarcazioni portoghesi provenienti dalle isole di Capo Verde, come riportato dall’imprenditore e storico del periodo Gabriel Soares de Sousa. Il cocco arrivò esattamente sulle coste della regione di Bahia e si diffuse velocemente su tutte le coste brasiliane.
Come spesso accade, le popolazioni indigene non ne apprezzarono immediatamente le grandi potenzialità alimentari, ma furono gli schiavi africani a introdurne l’uso pratico in Brasile, con la creazione di ricette originali che amalgamano e coniugano le culture di due continenti, come la moqueca bahiana, uno stufato di pesce e verdure molto gustoso.

Cocus nucifera

Cocus nucifera

Noi europei abbiamo conosciuto il cocco come noce marroncina e sfibrata all’esterno e bianca e polposa all’interno, venduta a fette sulle spiagge del Mediterraneo molto prima che arrivassero i ‘vu cumprà’ africani del secondo millennio. Da bambina smaniavo per una fettina di cocco, senza neppure sapere bene che sapore avesse, per la semplice ragione che la mia mamma mai e poi mai me lo avrebbe comprato. Ora conosco molto bene il sapore del cocco, nel gelato o a scaglie sui dolci, e anche l’odore deciso e dolciastro dell’olio usato per abbronzante. Niente di entusiasmante. Anche nelle immagini e nell’iconografia tradizionale il cocco viene sempre rappresentato con la noce secca, nuda e sfribrata.
Immensamente più bella  è la noce di cocco verde. Durante il mio primo viaggio in Brasile, nel 1979 a 23 anni, rimasi estasiata dall’acqua di cocco bevuta in un giornata calda e assolata di agosto (che in Brasile è inverno, ma era assolato lo stesso). Si prende una noce di cocco, verde, grande e pesante con tutta la sua polpa e la pelle lucida, e la si mette al fresco, in un grande frigorifero o un largo contenitore con il ghiaccio. Quando è bene fredda, si pratica un buco nella scorza e si infila la cannuccia per berne l’acqua che sta dentro. L’acqua di cocco verde è dolce e dissetante, una vera delizia. Apprendo ora che  ha anche notevoli proprietà salutari, perchè meno zuccherina e più ricca di micronutrienti del latte che si trova all’interno delle noci secche.

Semprevivi del cerrado

Rhyncospora consanguinea

Rhyncospora consanguinea

Paepalanthus

Paepalanthus bromelioides

 

In un ambiente secco e arido come è in apparenza il cerrado, e la zona montana dei campi rupestri, ci si aspetta di incontrare piante dall’apparenza diseccata, che mantengono a lungo forme e colori. Queste piante sono chiamate semprevivi, ma il nome è molto generico. Alle nostre latitudini il semprevivo è una pianta delle crassulacee dalla forma di grassa rosetta (vedi anche 31 ottobre 2008). Invece i semprevivi del cerrado hanno rigidi steli, sormontati da fiori che sembrano secchi anche quando non lo sono e si conservano a lungo se recisi. La stellata Rhincospora consanguinea appartiene alla vasta e cosmopolita famiglia delle Cyperaceae, quella del papiro. Altre piante invece fanno parte della più ricercata ed esotica famiglia della Eriocaulaceae. Sono questi gli affascinanti Paepalanthi e i loro cugini primi Actinocephali. Entrambe sfoggiano fiori rigidi che sono piccoli sfere bianche.

Paepalanthus actinocephaloides

Paepalanthus actinocephaloides

Se la nomenclatura è complessa e sempre in mutamento per specie conosciute e a portata di mano, essa è ancora più aleatoria e difficile da imparare per specie che vivono in ambienti lontani da noi e particolari. Il genere Actinocephalus per esempio è stato descritto per la prima volta nel 2004, mentre prima si chiamavano tutti Paepalanthus. La genetica darà ormai certamente una mano alla complessa classificazione, un tempo solo basata sull’accurata, pedissequa osservazione dei particolari morfologici di ciascun esemplare. Anzi proprio dalla genetica sono venute le prime sorprese che hanno permesso la ricollocazione e riclassificazione di molte piante. Ed è notizia di questi giorni che alcuni scienziati del mitico Orto botanico reale di Kew in Gran Bretagna hanno messo a punto uno strumento che permette di effettuare il sequenziamento del DNA di un vegetale praticamente sul campo. Così mentre un tempo per riconoscere e classificare le piante c’erano soltanto gli occhi, sono poi venuti gli strumenti per copiarne le forme sulla carta, matite e pennelli, e i grandissimi erbari degli artisti; e poi è arrivata la pellicola che fermava la luce e i colori e gli infiniti album fotografici dei botanici. Ora il sapere botanico si misura a terabytes e molto presto la bellezza di un fiore sarà automaticamente tradotta in una sequenza di lettere che rappresentano le molecole di cui è fatto.

Actinocephalus bongardii

Actinocephalus bongardii

Actinocephalus bongardii

Actinocephalus bongardii

Torno allora ai semprevivi, per chiedere al solito venia se ho sbagliato qualche attribuzione, fra i suggerimenti al volo dei locali, alcuni professionisti e altri dilettanti come me, e intricate passeggiate sul web cercando di interpretare le fotografie. Campioni a casa non ho portato questa volta, non ne ho spezzato neppure uno, temendo che alla fine a casa arrivasse ben poco. Invece li ho lasciati tutti lì, su quegli immensi altopiani, aperti a un cielo così vasto che si fa fatica a pensare che sia lo stesso cielo che abbiamo sopra la testa anche qua da noi.

Spathodea, l’albero dei tulipani africano

Spathodea campanulata

Spathodea campanulata

La famiglia delle Bignoniaceae comprende un nutrito numero di alberi tropicali, suddivisi in varie tribù; ma nessuno dei suoi membri è spontaneo in zone temperate, neppure la bignonia (14 luglio 2008) che è pure una presenza così familiare nei nostri giardini di campagna. Ma le piante tropicali, ormai lo abbiamo imparato, sono di bocca buona e al massimo si rassegnano a spogliarsi d’inverno, ma resistono con rabbia e allegria a tutte le interperie della nostra civiltà innaturale. Come accade per gli umani, ci sono famiglie i cui membri sono baciati dalla bellezza ed più appariscenti della media, e direi che questo è il caso delle Bignoniaceae, famiglia a cui appartengono notissime piante ornamentali.

Questo bell’albero, dai vistosi fiori arancione, è originario dell’Africa, ma diffuso parecchio anche in Brasile, anche perchè sembra piuttosto incline ad essere infestante. In Brasiliano ha molti nomi, bisnagueira e chama-da-floresta (fiamma della foresta), ma si chiama anche tulipeira-do-gabão (albero dei tulipani del Gabon).

Spathodea campanulata

Spathodea campanulata

Per non confonderlo con l’albero dei tulipani per antonomasia, Liriodendron tulipifera, in italiano si chiama albero dei tulipani africano, che in fondo traduce il concetto di tulipeira-do-gabão. Accetto, ma non approvo, perchè i fiori della Spathodea campanulata hanno assai poco dei tulipani. Per ricordarmi da vicino la loro forma, ne ho fotografato un esemplare, caduto e malconcio, raccolto da terra nel fiabesco villaggio di Biribiri, vicino Diamantina, Minas Gerais. (Anche il biribiri è un frutto brasiliano, simile alla carambola e spero che presto potrò dedicargli un post.)

Vellozia, la fenice, più unica che rara

Vellozia

Vellozia sp

La vellozia è l’assoluta protagonista di un ambiente naturale unico al mondo, i “campos rupestres”,  cioe campi rupestri, tradotto in inglese come rocky fields o anche rupestrian grasslands. Sarebbe un errore interpretare questo nome letteralmente, come un qualsiasi ambiente di montagna con formazioni rocciose. I ‘campos rupestres’ sono una fisionomia particolare di cerrado che si incontra soprattutto nella regione della Serra do Espinacho, negli stati di Minas Gerais e Bahia, fino alla Chapada Diamantina, nel Brasile nordorientale,  e sono caratterizzati da una topografia accidentata, fatta di grandi blocchi di roccia, con scarso terreno, acido e povero di nutrimenti.

Vellozia gigantea

Vellozia gigantea

Si tratta di un ecosistema antichissimo, in cui la diversificazione delle specie è avvenuta prima che nel cerrado, la savana neotropicale del bassopiano. Le piante si sono adattate a condizioni geologiche e climatiche particolari, caratterizzate da un suolo roccioso di quarzite, arenaria, calcare e ferro, una estrema stagionalità delle precipitazioni, con lunghissimi mesi di siccità e frequente sviluppo di incendi, come si nota dai fusti spesso anneriti. Nonostante le condizioni apparentemente poco favorevoli, la vita vegetale e anche animale di questo ambiente è ricchissima e meravigliosamente originale, con un gran numero di specie vegetali assolutamente uniche e preziose, che semplicemente non crescono da nessun altra parte della terra, sono cioè endemismi. Fra le piante endemiche più diffuse, ci sono proprio le vellozie, che appaiono all’occhio del profano una specie di incrocio fra una palma e un giglio. Un nome popolare brasiliano per la vellozia è canela-de-ema oppure caliandra, che non saprei davvero come tradurre, o ancora fenice del cerrado, forse anche per la sua prodigiosa resistenza al fuoco, che in questi luoghi divampa quasi regolarmente durante la stagione più secca e calda.

Campos rupestres

Una distesa di vellozie al tramonto
nel campo rupestre della Serra di Cipò

Il rapporto del cerrado con il fuoco è assai particolare. L’incendio è sempre stato visto come una forza distruttiva, capace di compromettere pesantemente l’aspetto e la vitalità della vegetazione. Tuttavia, dalla metà degli anni 1950, studi rilevanti riguardo al cerrado hanno cominciato a mettere in dubbio questa visione catastrofica e ha cominciato a farsi strada l’idea di un ruolo ecologico del  fuoco in queste regione. Gli incendi,  spesso innescati da eventi naturali come i fulmini, hanno l’effetto di  diminuire la densità della massa vegetale, ostacolando l’incremento di materiale legnoso e favorendo l’espansione delle piante erbacee.  Il fuoco ha un importante ruolo ecologico perchè accelera la mineralizzazione delle biomasse e permette il trasferimento dei nutrienti minerali immagazzinati nella paglia secca e morta sotto forma di cenere, che così tornano a disposizione della radici.  Anche se l’intervento dell’uomo negli incendi del cerrado è quasi sempre accidentale, i roghi dei campi sono una pratica conosciuta nell’agricoltura di tutto il mondo, proprio allo scopo di favorire il ritorno al suolo delle sostanze nutritive dell’erba secca. Inoltre, le fiamme nel cerrado sono improvvise e brevi e le piante come le vellozie vengono colpite solo superficialmente. Anche se la temperatura sulla superficie del suolo può raggiungere 800°C, appena 2 o 5 cm sotto la superficie, la temperatura varia soltanto di qualche grado e gi apparati sotterranei non vengono compromessi.  In una sola settimana dal divampare dell’incendio, i colori sono già ritornati sui campi, come se non fosse successo nulla.

Vellozia

Vellozia sp

La molteplicità vegetale dei campos rupestres è talmente grande che la regione è permanentemente fiorita durante tutte le stagioni dell’anno. Verso la metà di luglio, in pieno inverno tropicale, non credevo sarei riuscita a vedere i fiori delle vellozie. Ma evidentemente la stagionalità dei tropici ha poco a che fare con quella delle nostre latitudini e, seppure non abbondantissima, ecco la fioritura. Ogni fiore è eretto singolo sul suo stelo, anche se diversi steli talvolta spuntano sulla stessa pianta. Oltre ai fiori, in altre piante fanno capolino le capsule dei semi.

Vellozia sp

Vellozia sp
capsule di semi

Le vellozie danno il nome alla famiglia a cui appartengono, le velloziaceae, monocotiledoni. Nonostante alcune apparenti somiglianze con altre famiglie tropicali, queste piante si distinguono da tutte le altre per i fusti sparsamente ramificati, coperti da persistenti involucri foliari e radici avventizie e frequentemente anche da foglie marcescenti, e per i fiori, singoli e campanulati.

Data la loro singolarità, le vellozie, come altre piante endemiche tropicali, sono tuttora un vero e proprio scrigno di tesori, perchè ancora non si sa quante sostanze benefiche e composti bioattivi di utilità potranno fornirci. Come dei composti diterpenoidi, con proprietà erbicida e larvidicida, che sono stati isolati dalle radici della V.gigantea

Lavoisiera, la bella del cerrado (e qualche attraente cugina)

Lavoisiera

Lavoisiera sp

La lavoisiera è un magnifico fiore del cerrado, la savana neotropicale del Nordest Brasile, che cresce in zone particolari denominate campi rupestri (campos rupestres in brasiliano), dove il suolo è fatto di sabbia e roccia, quarzite, arenaria, calcare o ferro, e dove la vegetazione è perfettamente adattata alla stagionalità delle pioggie, ma anche del fuoco. Ambiente duro e magico, i campi rupestri albergano migliaia di specie vegetali arcane e uniche al mondo.

Ho incontrato per la prima volta la lavoisiera senza conoscerla, in una serata di nuvole e vento, immersa nella sterminata natura della serra. Su per l’altopiano, dalla Serra do Cipò verso il Morro do Pilar, la carrozzabile che ripercorre l’antica Strada Reale (Estrada Real) è asfaltata e ben praticabile. A circa 20 km da Serra do Cipò, dalla strada si stacca un largo sentiero che conduce a un monumento. Non è dedicato a qualche eroe della democrazia e della rivoluzione, è dedicato al Juquinha, un piccolo vagabondo gentile che viveva da queste parti, distribuendo fiori a tutti quelli che incontrava. Si racconta che Juquinha soffrisse di catalessi e talvolta cadesse addormentato, come morto. Finchè quando morì davvero, la prefettura del luogo gli dedicò questo monumento, opera della scultrice Virginia Ferreira.

Juquinha

Monumento a Juquinha
Morro do Pilar, MG Brasile

Mentre il vento squassava arbusti solo apparentemente inariditi, impareggiabili corolle rosa e fucsia si aprivano attonite davanti ai miei occhi. La lavoisiera è una pianta rara, che fu descritta e battezzata da Augustin Pyrame de Candolle (DC.), botanico sistematico dell’epoca e della statura di Linneo, che la dedicò alla memoria del padre della chimica moderna Antoine-Laurent de Lavoisier, ghigliottinato nel 1794, una pianta tanto rara da non essere conosciuta con un nome comune e non scientifico neppure in Brasile.

Lavoisiera

Lavoisiera sp

Delle 88 specie di Lavoisiera descritte, solo 31 sembrano effettivamente accettate (vedi Plant List) e varie sono specie protette e rischio scomparsa.  E’ davvero difficile indentificare la specie delle piante che ho fotografato e sono davvero sicura soltanto del loro genere. Dopo un po’ di ricerche, trovo che almeno due specie hanno un nome comune, la L. gentianoides, detta falsa genziana, che non credo di avere mai visto, e la L. campos-portoana, facilmente soprannominata flor-do-amor, fiore dell’amore.

Lavoisiera

Lavoisiera campos-portoana
Serra do Espinhaço

Quest’ultima specie, che è fra quelle minacciate secondo questo articolo, ha foglie carnose pubescenti, opposte e molto appressate al fusto. Anche se con estrema cautela, mi pare proprio che la pianta della foto a destra le assomiglio parecchio. E’ stata fotografata sulle pendici della Serra do Espinhaço, la più importante catena montuosa del Minas Gerais e luogo di inebriante biodiversità. Non è del tutto chiaro da dove le derivi quel nome, Espinhaço, datole dal geologo tedesco Wilhelm Ludwig von Eschwege, che significa grande spina. C’è chi dice da “spina dorsale”, immagine tipica per molte catene montuose, ovvero dalla presenza di innumerevoli rocce aguzze e spinose che emergono dalla montagna, spezzando la visuale e la vegetazione.

Lavoisiera appartiene alla famiglia delle Melastomataceae, dicotiledoni tropicali di forme e aspetto particolarmente attraente. Molte piante di questa famiglia uniscono alla bellezza dei fiori foglie dalla forma particolarmente aggraziata, dall’ovale perfetto e con nervature parallele. Sono le piante del genere Tibouchina, famose anche come piante da giardino, seppure con esigenze particolari a causa della loro origine tropicale.  Le foglie della Tibouchina heteromalla, anche lei tipica di questi campi, le hanno meritato il soprannome di “orelha-de-urso”, orecchio d’orso o addirittura “orelha-de-onça”, orecchio di giaguaro. Ma il fiore è quello della quaresmeira, una pianta molto nota in tutto il Brasile.

Nella stessa regione, fra il parco della Serra do Cipò e le pendici della Serra do Espinhaço, incontro altri membri della famiglia, come una meravigliosa cugina, Trembleya parviflora, dai piccoli perfetti fiori bianchi.

Trembleya parviflora

Trembleya parviflora

Tibouchina heteromalla

Tibouchina heteromalla
detta orelha-de-onça o orelha-de-urso

Dillenia indica, la mela degli elefanti

Dillenia indica

Dillenia indica

Dillenia indica è una bella pianta asiatica che in quasi tutte le lingue si chiama ‘mela degli elefanti’, in inglese elephant-apple, in francese pomme d’éléphant, in spagnolo manzano de los elefantes e naturalmente in brasiliano, cioè in portoghese, maçã-de-elefante. Solo in italiano non ha nome, probabilmente perchè non ne ha bisogno essendo quasi completamente sconosciuta, ma dobbiamo chiamarla noi, mela degli elefanti. E’ un piccolo albero, rotondeggiante e molto ornamentale, dalle lunghe foglie  lucide, solcate da nervature regolari. I fiori pare siano vistosi e profumati, ma io non li ho mai visti. E i frutti, le famose mele, sono verde giallo brillanti, globose, ricoperte dal calice carnoso, che sono i sepali ispessiti del fiore.

Dillenia indica

Dillenia indica, la mela degli elefanti

Gradito alle scimmie e agli elefanti (da cui il nome), il frutto della Dillenia non è molto consumato dagli umani così com’è, per il sapore acidulo e poco allettante, ma viene usato soprattutto come addittivo naturale nelle salse, per insaporire il curry, marmellate e gelatine. Tutta la pianta contiene principi attivi salutari che ne hanno fatto una protagonista della medicina popolare. Viene impiegata in India e Vietnam per curare varie affezioni intestinali, che vanno dalla stitichezza ai dolori addominali, ma anche l’inappetenza, la febbre, la tosse, e la stanchezza. In campo cosmetico e dermatologico, estratti di questa pianta sono efficaci rimedio contro la forfora e le macchie scure della pelle. E’ sempre abbastanza sorprendente scoprire per quante diverse affezioni una pianta possa essere utilizzata dalla medicina tradizionale. Sorprendente, ma non troppo, se ci addentriamo nella fitochimica delle piante per scoprire quante diversi componenti attivi, antiossidanti come flavononi e flavonoidi, terpeni come acido betulinico e molto altro ancora, contiene la scorza, la radice, il fiore e il frutto di questa pianta, come diversi e svariati sono i componenti attivi di tutte le specie vegetali.

La famiglia, Dilleniaceae, diffusa in Asia e Australia e negli ambienti tropicali e subtropicali, è una di quelle che ancora ci serbano interessanti sorprese. Per me è già stata una sorpresa incontrarla, in Brasile naturalmente, perfettamente a suo agio al bordo della serra, con le sue mele luminose e pulite.

Schefflera

Schefflera arbicola

Schefflera arbicola

Nei nostri climi, temperati non solo dalla latitudine, ma anche dal riscaldamento, la schefflera è una pianta da appartamento, ricercata per le sue fronde ornamentali, dalle foglie lucenti e coriacee che si diramano a raggiera come le stecche di metallo che sostengono un ombrello. Il colore è un verde lucente, in certe varietà screziato di bianco crema.

Originaria dell’Australia e ben adattata in zone tropicali, la schefflera è un arbusto imponente che può arrivare a 2 metri di altezza. Nel luogo più tropicale del nostro paese, la Sicilia, capita di incontrare questa pianta anche all’aria aperta, e qualcuno avrà potuto notare che talvolta fiorisce e produce bacche arancioni, in pannocchie molto decorative.

Un’altra specie di Schefflera, S.actinophylla viene anche chiamata ‘octopus tree’, albero polpo, perchè i fiori si dispongono in spighe allungate che ricordano i tentacoli del polpo.

Come quasi tutte le altre specie tropicali adattate in appartamento, la vita in casa le insterilisce ed è veramente una rarità vederle fiorite. Per questo, ho fatto inizialmente fatica a riconoscere le schefflere cariche di bacche arancioni nel giardino della Pousada das Pedras, Serra do Cipò, Minas Gerais, dove contendevano il primato del colore con un’altra pianta, che ho già incontrato guarda caso in Sicilia, la duranta.

Duranta erecta

Duranta erecta
giardino Pousada das Pedras, Serra di Cipò, MG, Brasile

Il bastone dell’imperatore

Bastone dell'imperatore - Etlingera eliator

Bastone dell’imperatore
Etlingera elatior

Etlingera elatior

Bastone dell’imperatore
Etlingera elatior

 

Così in questo aspetto, con fiori chiusi (a sinistra) o sfioriti (a destra), sembra davvero soltanto un bastone, anche se dotato di una certa regalità, come vuole il suo nome popolare, “bastão do imperador”, bastone dell’imperatore. Ma quando i larghi fiori, che in queste fotografie si devono soltanto immaginare, sono aperti, si guadagna il nome  “rosa de porcelana”, rosa di porcellana, o rosa di cera.
Originario dell’Indonesia, patria di molti fiori e frutti esagerati, e trapiantato con successo in Brasile, appartiene alla famiglia dello zenzero e della curcuma, Zingiberaceae, e come questi ha utilizzi alimentari, anche se la sua bellezza e autorità ne fa una specie soprattutto ornamentale.

Fotografato nel parco di Inhotim (a sinistra) e nel giardino della Pousada do Pequi, São Gonçalo do Rio das Pedras, affascinante paesino del Brasile profondo (a destra), in Minas Gerais.

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Guarapuruvu, l’albero più bello del Brasile

Guarapuruvu - Schizolobium parahyba

Guarapuruvu
Schizolobium parahyba

Questo esemplare, relativamente minuto, svettava al tramonto nel cielo di Inhotim (Minas Gerais, Brasile), fantastico museo all’aria aperta di arte e botanica del Nuovo Mondo.

Nativo dell’area neotropicale, il guarapuruvu è una creatura tipica della mata atlantica. E’ l’albero simbolo di Florianopolis, capitale dello stato di Santa Catarina, ma si trova anche molto più a Nord, nello stato di Bahia.  Inizialmente descritto come Cassia parahyba, è un albero alto e flessuoso, certamente molto ornamentale, dall’accrescimento rapido e morbide fronde a ventaglio. Foglie composte di piccole foglioline che rivelano l’appartenenza alla famiglia delle Fabaceae.
I brasiliani orgogliosi me lo presentano come l’albero più bello del Brasile, precisandomi che questo è un individuo piccolino perchè l’albero cresce cresce e raggiunge anche i trenta metri di altezza.

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Palma diamante

Johannesteijsmannia altifrons

Palmeira-diamante
Johannesteijsmannia altifrons

Ed eccomi nel parco di Inhotim, comune di Brumadinho, stato del Minas Gerais, non troppo lontano dalla capitale Belo Horizonte e da Betim, città industriale che ospita la fabbrica brasiliana della Fiat. Inhotim è un parco, ma è anche una galleria d’arte moderna, ma è anche un giardino botanico tropicale, ma è anche una collezione di esposizioni artistiche, un palcoscenico naturale, una raccolta di idee e di riflessioni sul mondo.

Ideato e realizzato dall’imprenditore minerario Bernardo Paz, anche per preservare l’ambiente naturale dell’area dal selvaggio sfruttamento industriale, è una raccolta di opere d’arte moderna su ispirazione dell’artista Tunga e un giardino disegnato e progettato dell’architetto paesaggista Roberto Burle Marx. La leggenda vuole che il nome derivi dal nome del precedente proprietario del luogo, un ingegnere inglese noto come Senhor Tim, che diventa Nhô Tim nel dialetto del Minas Gerais.

Vi si trovano 23 opere d’arte all’aria aperta e 23 gallerie d’arte e fotografia. La mappa indica inoltre 30 piante o alberi di interesse botanico. Ma non sono i soli. Io ho scelto questa lussuosa palma diamante, che non c’è sulla mappa, una palma grandiosa che viene dal sudest asiatico, Sumatra e Malesia, e naturalmente qui si trova benissimo. Ha un nome scientifico quasi impronunciabile, ovviamente in onore dell’insigne botanico di turno (Johannes Elias Teijsmann, olandese, direttore del giardino botanico di Bogor in Indonesia).

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