Senecio in fiore

Senecio vulgaris

Senecio vulgaris
(inverno)

Le incarnazione della piante del genere Senecio, famiglia delle asteracee  sono innumerevoli.

Le forme più banali, con fiori disposti a capolino, con o senza ligule (cioè linguette esterne allungate), si incontrano nei campi e sui bordi delle strade, come il Senecio vulgaris, che fiorisce praticamente tutto l’anno, e anche in condizione proibitive, oppure neofite invasive come Senecio pterophorus, di lontana origine africana. Altre sono piante più vistose, come il Senecio grandifolius, con ampi fiori a forma di margherita gialla. In tutti quanti i frutti sono acheni (seme quasi nudo), provvisti di pappo (barbetta volatile), e disposti in piccoli soffioni compatti, bianchissimi, somiglianti cioè alla chioma canuta di un vecchio (latino senex, da cui senecio).

Appartengono a questo genere anche specie all’apparenza di piante grasse o succulente, che vengono più correttamente assegnate al genere Kleinia. Una di queste è Senecio rowleyanus (Kleinia rowleyana), originale piantina originaria del Sud Africa, detta anche senecio a collana o pianta del rosario. Ha foglie carnose, tonde come perle , appese a rami sottili, striscianti o pendenti, ben verdi nella bella stagione, giallo pallido d’inverno, collane di foglie, fitte e lussuosamente ricadenti come gioielli nel loro tempo migliore.

Senecio rowleyanus

Senecio rowleyanus

Senecio rowleyanus

Senecio rowleyanus

Quest’anno, nel calore della serra, vicino ad altre succulente che non si stancano mai di regalarmi fioriture, anche il mio senecio a collana ha deciso di fiorire. Le foglie non sono ancora rinverdite del tutto, ma ovunque sono sbocciati piccoli capolini di corolle bianche, la cui forma ricorda (colore a parte), quelli del Senecio galpinii oppure quelli del Senecio crassissimus, un altro suo singolare parente che ancora si sta riprendendo dall’inverno.
I tralci a collana della pianta del rosario (da non confondere con l’albero dei rosari, Melia azedarach) radicano facilmente e dovrebbe essere relativamente semplice moltiplicarla. Tuttavia la crescita è lenta e imprevedibile, anche se mi pare che nella mia serra abbia finalmente trovato un ambiente a lei congeniale.

Il mio giardino planetario

Taraxacum officinale

Taraxacum officinale

Racconta Gilles Clement,  noto architetto paesaggista che sarebbe poi diventato sincero ammiratore delle erbe vagabonde, che da ragazzo subiva la “tirannia del prato”.  Suo padre, che il prato lo aveva seminato, rullato, annaffiato e nutrito, pretendeva che il risultato fosse sempre perfettamente “inglese”.  Così il giovane Gilles, armato di sgorbia, si affannava a sradicare qualsiasi erba intrusa che rovinasse la precisa uniformità dei sottilissimi fili d’erba.  Tuttavia, la natura non pareva dargli alcuna soddisfazione.  Al contrario, alla prima pioggia lasciava che spuntassero “abominevoli specie dalle foglie villose, carnose e ben tappezzanti, che niente avevano a che fare con l’immagine sul pacchetto della semenza”. Tarassachi e verbaschi, loti e potentille, pratoline, romici e grespini, cornette e lunarie ritornavano più forti e spavalde di prima.

Giardino : Lunaria Taraxacum

Lunaria annua
Taraxacum officinale

Ho tentato un paio di volte a seminare un prato all’inglese, senza neppure troppa convinzione. Talvolta l’erba è cresciuta, se la primavera era abbastanza umida. Per disperdersi poi nella calura estiva, o soffocata da infestanti di varia provenienza. Il segreto del successo fu rivelato una volta da un gentiluomo britannico a un amico americano: “Il prato si semina e si annaffia; quando l’erba spunta e cresce,  si taglia e  si annaffia; l’erba cresce e si taglia; si annaffia, si taglia e si annaffia. E poi basta andare avanti così, per trecento anni.”
Si tratta di un tipo di prato abbastanza incompatibile con il clima mediterraneo, e comunque incompatibile con chiunque ami il giardino planetario.
Così nel mio giardino intrusi e imprevisti della primavera sono i benvenuti, anche se la cura dell’orto e un po’ di pulizia mi costringono mio malgrado a ridimensionarli costantemente.  Mi diverto a riconoscerli tutti e la sorpresa più bella è scoprirne qualcuno nuovo e osservarlo mentre cresce e si rinforza, cercando di indovinare di che si tratti. Mi è accaduto con il Geum urbanum, che ha ormai colonizzato il praticello ai piedi di un olivo. O i papaveri, Papaver rhoeas oppure Papaver dubium, che spuntano regolarmente spontanei ai bordi della cisterna.

Molto celebre e onnipresente è il tarassaco (gruppo del Taraxacum officinale), che ha molti nomi, da piscialetto per le sue supposte proprietà diuretiche, a girasole, essendo indiscutibilmente un cerchio di petali gialli.  Contrariamente a quanto molti pensano però non tutte le margherite di quella forma sono tarassachi, anzi, ne esistono  decine di generi e specie assai diverse, ovunque nei prati, ma anche sui cigli delle strade.  La buona notizia è che sono tutte quante mediamente commestibili, ovvero è piuttosto difficile avvelenarsi assaggiando foglie e fiori a forma di tarassaco (cerchiamo però di non confonderlo con il ranunculo).

Meno note come piante, ma certamente riconoscibili quando vanno in seme, sono le cosidette monete del papa (o medaglioni del vescovo). Ma prima di diventare monete, i fiori della Lunaria annua sono di un bel rosa acceso, a quattro petali come tutte le crucifere. E’ una pianta annuale che si rinsemina voracemente, diffusissima in questa stagione in ogni angolo verde (ne ho visto addirittura un cespo ai bordi della sopraelevata strada Aldo Moro).

Giardino : Viola odorata

Viola odorata
(con Taraxacum officinale)

Veronica persica

Veronica persica

La piccola veronica Occhi della Madonna (Veronica persica) si fa contemplare a lungo prima che mi rassegni a estriparla. Sicura comunque che tornerà. Come ritorneranno, più dense e rigogliose di prima le famose violette, messaggere della primavera (Viola odorata), pianticelle incredibilmente invasive e tenaci, che ovviamente si fanno perdonare quando riempiono di colore gli angoli più oscuri dell’inverno che se ne va.

Il centonchio comune, che si chiamava Anagallis arvensis, oggi Lysimachia arvensis (famiglia Primulaceae),  è un’erbetta infestante che fiorisce costante dalla primavera fino all’autunno, con microscopiche corolle di un fiammante rosso mattone. Visti da vicino, da molto vicino, i fiori sono appariscenti e figurerebbero senza dubbio fra specie ricercate come ornamento, se non fosse per le ridotte dimensioni (il diametro dei fiori arriva a malapena a un centimetro).

Anagallis arvensis

Anagallis arvensis (Lysimachia arvensis)

Anche la piantina è ridotta, con fusti striscianti e morbidi, che si strappano e sradicano con estrema facilità, ma con altrettanta facilità germogliano di nuovo. Una sua parente, il centonchio azzurro, Lysimachia foemina, gode di miglior fama, forse perchè è un po’ più rara ed ha petali azzurro turchini. Invece il centonchio comune, che cresce dappertutto, non merita molta considerazione. Si mimetizza con disinvoltura in mezzo alle insalate fra le quali è nata e cresciuta; ma è tossica e si dice possa causare intossicazioni alimentari. Io la trovo spessissimo in mezzo a qualsiasi cosa raccolga nell’orto. Non posso escludere di averla assaggiata per errore; sarà stata la modica quantità, non ricordo di aver avuto disturbi significativi. Sospetto che chi si è intossicato, piuttosto che dimenticarsi di toglierla dall’insalata, l’abbia scambiata per l’insalata.

Euphorbia peplus

Euphorbia peplus

Certamente velenose, o comunque moleste, sono le euforbie, una ricchissima famiglia di erbe molto particolari, che annovera al suo interno la celeberrima stella di Natale o poinsettia, oltre a gigantesche piante spinose, frequentemente confuse con le cactaceae.

Euphorbia helioscopia

Euphorbia helioscopia
(con Taraxacum officinale)

Nel mio giardino planetario cresce molta, anzi troppa, euforbia minore (Euphorbia peplus), sbrindellata e poco attraente. Ma a primavera sbocciano le infiorescenze verde giallo dell’euforbia calenzuola (Euphorbia helioscopia), assai più vivace e simpatica. Le euforbie contengono lattice irritante, ma anche sostanze medicamentose. Mai fidarsi delle euforbie, mai sottovalutarne le potenzialità.

Tante ancora potrei ricordarne,  sfacciate e graziose erbette da compagnia, discrete e tenaci, timide ed impudenti, mutanti con  le stagioni di cui scandiscono il tempo.  Ogni anno muoiono e rinascono, sempre uguali e sempre diverse,  perchè nel prato la permanenza non esiste,  ma soltanto il continuo divenire.

Stellaria media
Sonchus asper
Malva sylvestris
Potentilla reptans

Primula, dimmi chi sei

Primula vulgaris

Primula vulgaris

Nelle stagioni del bosco, le primule sono grandi protagoniste. Cuscinetti gialli punteggiano le radure e i declivi già da febbraio, e talvolta anche prima. Il nome è proprio sinonimo della sua precocità, di primo fiore del risveglio. Ma le conosciamo davvero?
Il genere Primula comprende circa 500 specie nel mondo, di cui una trentina di specie e sottospecie si incontrano più o meno frequentemente in Italia.
Se si abbandona per un attimo la strada maestra, seguendo qualche sentiero che si addentra nel bosco e magari sale verso un colle, a partire da mese di marzo, si può incontrare un’altra primula, la primula odorosa (Primula veris), dal lungo stelo e i fiori a mazzetti penduli. Il suo nome specifico, veris, richiama ancora una volta la prmavera. In inglese, la primula comune si chiama primrose e quella odorosa si chiama cowslip, dall’etimologia controversa, forse  dall’inglese antico cowslyppe, letteralmente letame di vacca, probabilmente perchè questi fiori crescono sui pascoli del bestiame.

Primula veris

Primula veris

L’osservazione delle primule ha prodotto alcuni risultati molto interessanti per la fisiologia vegetale. I fiori delle primule sono ermafroditi, cioè presentano entrambe i caratteri sessuali sullo stesso fiore.   Almeno così sembra… all’interno del un piccolo tubo corallino si trovano il pistillo (organo femminile) e gli stami (organo maschile).  Ma le cose sono un po’ più complicate, tanto da interessare addirittura uno dei più grandi scienziati dell’epoca moderna, Charles Darwin, che coniò il termine “eterostilia”(1). Non era però stato lui il primo ad osservare, già altri botanici avevano in precedenza descritto la singolare differenza  nella morfologia dei caratteri sessuali di questi fiori. In alcuni esemplari lo stilo, cioè la parte allungata del pistillo, è breve (brevistilo o microstilo) e lo stimma, la parte apicale su cui si posa il polline durante la fecondazione, viene a trovarsi a metà del tubo corallino, mentre le antere, la parte terminale degli stami che diffondono il polline, sporgono fuori. Nei fiori longistili invece la situazione è rovesciata e lo stimma si affaccia fuori, mentre gli stami sono più corti e interni.

Primula vulgaris

Primula acaulis
(da vivaio)
fiore longistilo

Allora Darwin si chiese: qual è la ragione di questa eteromorfia florale? Inizialmente pensò addirittura che si trattasse di fiori di sesso distinto, cioè che la pianta fosse dioica. In realtà queste morfologie differenti rappresentano un accorgimento per evitare l’autoimpollinazione, Infatti per riprodursi efficacemente ogni pianta ha bisogno dell’impollinazione incrociata e sono gli insetti e il vento che devono mischiare le carte. I fiori con stilo lungo e antere corte sono più facilmente impollinati dai fiori con antere lunghe e sporgenti e stilo corto e viceversa, così la sfortunata autoimpollinazione è molto sfavorita. Ma c’è di più, e a un genio della comprensione dei meccanismi evolutivi non poteva sfuggire. Darwin notò anche che i fiori longistilo (in inglese thrum flowers) con antere basse, hanno polline a grani più piccoli, mentre i brevistilo, con antere superiori (in inglese pin) e comprese che semplicemente l’impollinazione andava a buon fine soltanto fra individui diversi. Ora si può affermare secondo le leggi di Mendel che il longistilo è un carattere  recessivo, mentre il brevistilo è correlato a un allele dominante S, o gene dell’autosterilità.

Lythrium salicaria

Lythrium salicaria
Salcerella

Più recenti studi genetici di biologia molecolare hanno dimostrato l’intuizione di Darwin, ovvero che la differenza nei caratteri morfologici è effettivamente collegata ad incompatibilità riproduttiva. Questo dimorfismo dei fiori è comune anche altri generi e, benchè affascinato dalla primule, Darwin lo descrisse anche nei fiori di lino e salcerella(2) e ci fa capire quanto l’adattamento evolutivo delle specie vegetali sia complesso ed affascinante.

La conclusione è che le primule dipendono da soprattutto dagli insetti, e anche dal vento, per la loro riproduzione e poichè sbocciano in una stagione ancora piuttosto rigida, non è poi così facile farsi baciare da qualche impollinatore di passaggio. Così è nata la leggenda di una primula ‘eternamente vergine’ perchè raramente impollinata. Tuttavia a giudicare dalla loro diffusione credo che il problema sia in realtà agevolmente superato.

(1) Darwin CR. 1862. On the two forms or dimorphic condition in the species of Primula, and on their remarkable sexual relations. Journal of the Proceedings of the Linnean Society, Botany 6: 77–96.

(2) Gilmartin PM. On the origins of observations of heterostyly in Primula. New Phytol. 2015 208:39-51. doi: 10.1111/nph.13558.

Le stagioni del bosco

Prima di diventare l’oscuro scrigno di misteri e magie delle notti d’estate, il bosco ancora spoglio è un caleidoscopio di vitalità ed esperimenti.

Crocus vernus nel bosco

Crocus vernus

Quando ero bambina, figlia della città, conoscevo la campagna solo d’estate e pensavo al bosco come una luminosa penombra, coperto da un tappeto di tiepide foglie e muschi, con pallidi ciuffi di erba giallina.  Con mia grande sorpresa lo scoprii un giorno a fine inverno pieno di luce e coperto di crochi rosa. Il croco è una delle avanguardie più spavalde della fine del gelo, timido ed invadente, piccolo, ma coraggioso. Dove nevica, riesce a bucare la neve. Ha graziose corolle, dal bianco al violetto, petali vellutati e resistenti, stami giallo rossi e uno stimma arancione e piumoso. Appartiene alla famiglia delle iridacee, con giaggioli e gladioli. Uno dei più comuni è Crocus vernus, cioè croco invernale, o meglio primaverile, che si distingue per esempio da Crocus biflorus, altra specie diffusa, ma non comune in Liguria, perché la fauce, cioè l’incavo più profondo del fiore è viola pallido o bianco, mentre quello di C. biflorus è giallo.

Crocus ligusticus

Crocus ligusticus
(autunnale)

Il croco più celebre è lo zafferano, Crocus sativus, specie ormai soltanto coltivata, che fiorisce in autunno. E autunnale è anche il Crocus ligusticum, detto zafferano ligure, che però dello zafferano vero è solo uno scadente surrogato. Crocus sativum ha tre stimmi rosso fuoco chiaramente distinti, che contengono la preziosa spezia, mentre gli altri crochi ne hanno uno solo, laciniato e piumoso. Tutti i crochi hanno poi tre stami gialli ed è questo particolare che li distingue dal colchico (famiglia liliacee), che é una pianta velenosa, detta volgarmente ‘zafferano bastardo’.

Erythronium dens-canis nel bosco

Erythronium dens-canis

Ma torniamo al bosco. Quando la fioritura dei crochi primaverili volge al termine, il sottobosco dei castagneti e faggeti, ancora molto luminoso, si ricopre di fiori variopinti. Per esempio lo puoi trovare cosparso di piccoli gigli dalle foglie maculate. E’ l’eritronio o dente di cane (pare che questo singolare nome sia dovuto alla forma del bulbo), piuttosto comune nel Nord Italia, assente invece nel Centro-Sud. Con l’ingenuità del neofito, osservando i lunghi petali ripiegati all’indietro verso l’alto, per anni ho pensato che si trattasse di una sorta di ‘ciclamino selvatico’.  Le somiglianze superficiali spesso traggono in inganno, perché eritronio e ciclamino non sono per nulla imparentati, neanche alla lontana. Il ciclamino appartiene alla famiglia delle primulaceae, dicotiledoni, e la sua radice è un tubero. L’eritronio è una liliacea, monocotiledone, con radice a bulbo. Affascinata dalla grazia delle sue forme, una volta, confesso, l’ho sradicato e portato a casa. Sopravvisse, ma non durò a lungo terminata la fioritura. Ho imparato da questi goffi esperimenti che i fiori selvatici stanno bene dove sono e per finestre e balconi meglio scegliere i ciclamini dei vivai.

Hepatica nobilis nel bosco

Hepatica nobilis

Nei pressi di casa mia, i dente di cane sono radi, mentre in marzo il bosco è letteralmete cosparso delle corolle blu delle epatiche, una ranunculacea. La sua stagione è breve, anche se le ombre dell’estate sono ancora lontane. L’aria si è fatta tiepida e ormai il bosco dona senza bisogno di chiedere. Le anemoni trifogliate (Anemonoides trifolia, famiglia ranuncolacee) spuntano fra le foglie secche come piccole stelle luminose. Anche questa piantina è presente in Nord e Centro Italia, ma non al Sud.

Anemonoides trifolia nel bosco

Anemonoides trifolia

Piuttosto simile alla trifogliata è l’anemone bianca, Anemonoides nemorosa. Entrambe crescono nei boschi di latifoglie, quercete e faggete, e fioriscono più o meno nello stesso periodo. La differenza fra le due specie sta soprattutto nella forma delle foglie e nel colore delle antere, bianche quelle della trifogliata e gialle quelle della nemorosa.

Anemonoides nemorosa

Anemonoides nemorosa

Sugli alberi ormai compaiono le prime gemme. Alcuni si ornano di fiori, come i piccoli e robusti cornioli, i magici olmi, o di amenti, sospesi come preziosi pendagli. Il verde acerbo delle prime foglie non smorza la luce del sole.

Sarà quando i castagni, signori del bosco, si coprono d’oro che sapremo che i fiori sono andati a dormire e il bosco è veramente pronto alla sua stagione migliore.

Castanea sativa

Castanea sativa
fiori

La primavera immancabilmente …

primavera

Prunus spinosa

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Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire intenti
dove vestigio human l’arena stampi.
****

Talvolta le giornate umane sembrano susseguirsi una uguale all’altra, con insormontabile monotonia. Gli oggetti, le cose e i volti che ci circondano non sembrano capaci di alleviare il tedio e l’uniformità della nostra prigione. Soprattutto in questo periodo, quando le distrazioni e gli svaghi sembrano preclusi e qualsiasi cambiamento appare crudelmente impossibile e proibito.
Credo che sia per questo che la natura ci ha regalato la primavera. Mentre le altre stagioni si fanno sempre annunciare ed arrivano, desiderate o temute, a volte liberatorie, a volte soffocanti, ma sempre prevedibili, la primavera è sempre inaspettata. E non c’è bisogno di preoccuparsi, di affrettarsi e correre per arrivare in tempo, non c’è bisogno di appuntarselo sull’agenda, di regolare la sveglia, di fare telefonate, di compilare domanda, chiedere informazioni, cercare consigli, pretendere raccomandazioni, inviare solleciti, di inoltrare reclami, di aggiornare il sistema operativo, caricare l’app, confermare i dati, premere il pulsante …
Non c’è nulla da fare. La primavera arriva.

primavera 2020

Prunus – 8 marzo 2020

primavera 2021

Prunus – 9 marzo 2021

Anche questa mattina, esattamente come un anno fa, mi sono arrampicata un po’ per le colline alla ricerca di nuove fioriture. Lontano quanto possibile dagli assembramenti umani che continuano ad essere poco raccomandabili. Mi viene incontro l’esplosione dei pruni, coriandoli candidi nel bosco spoglio, e qualche cespo di viburno, dall’aspetto solido e rassicurante.

Quest’anno le fioriture sono un po’ più indietro rispetto all’anno scorso. Ci sarà pure il riscaldamento globale, non metto in dubbio che le temperature medie siano aumentate, ma la natura ha tempi imperscrutabili, e, complice forse la luna (il primo plenilunio di marzo sarà il 28) non è sempre attenta a scadenze fisse.

Non mancano all’appello le splendide epatiche (Hepatica nobilis) e gli anemoni stellati (Anemone hortensis), è la loro stagione e non bisogna proprio lasciarseli sfuggire. Questi anemoni, detti anche anemone dei fioristi perchè frequentemente coltivati, sono spontanei fino alla Liguria e all’Emilia Romagna, ma assenti nel Nord. Si incontrano a frotte, nel bel mezzo dell’erba ancora marroncina. Il fiore è unico, profumato, con petali appuntiti, rosei, violetti o quasi bianchi, stami azzurro viola e antere nere, mentre le foglie basali sono lobate e laciniate, quelle cauline (cioè le foglie che crescono sullo stelo) formano un verticillo di tre o più foglie allungate, a una certa distanza al di sotto del fiore.

Viburnum tinus

Anemone hortensis

Anemone hortensis

If winter comes…

Hepatica nobilis (winter)

Hepatica nobilis

Ho incontrato un’Hepatica nobilis al bordo del bosco. E’ precoce davvero, ma lontana sul pendio e non si fa riprendere volentieri. Però non ho scelta, c’è solo lei. Il nome non le si addice, e neppure mi piace chiamarla erba trinità, vorrei davvero trovare un altro nome per questo primo fiorellino incerto, caparbio testimone che l’inverno prima o poi finisce davvero. Sono giorni di attesa, quasi spasmodica, ma non occorre avere fretta. Troppo velocemente si dipanerà la forza della primavera, quando ne avrà voglia.

Helleborus foetidus (if winter comes)

Helleborus foetidus

Passeggio e contemplo la grazia arcana degli ellebori selvatici, Helleborus foetidus, non puzzolente, ma dal forte odore, fiori verdolini e rossi nel cuore. Tutte e due, elleboro e epatica, sono della famiglia della Ranunculaceae, fiori temerari e appariscenti, spesso velenosi.

Nel giardino, il calicanto d’inverno, Chimonanthus fragrans, lui sì profumatissimo, e la camelia, Camellia japonica, sono fioriti in abbondanza. La stagione offre questo, e non molto di più.

Populus tremula (if winter comes)

Populus tremula

 
 

Gli alberi, come sempre nudi da sembrare morti, trattengono testardamente qualche brandello di giallo, mentre le intemperie hanno falcidiato quelli che per loro natura non si spogliano mai.

L’inverno quest’anno è grigio, senza neve, ma fradicio e intirizzito, un inverno costretto, in cui si avrebbe voglia di esplodere e liberarsi da tutte le catene, volare forse, trascinati da questo vento pazzo, proprio come le foglie che già si sono disperse dai rami. L’inverno quest’anno è lungo, è arrivato e non se n’è più andato. Ma per fortuna c’è il vento.

«Be through my lips to unawaken’d earth
The trumpet of a prophecy! O Wind,
If Winter comes, can Spring be far behind?»
(Percy Bysshe Shelly, Ode to the West Wind)

Indomito sparviere

Sparviere Hieracium amplexicaule

Hieracium amplexicaule

Anche se la neve è caduta copiosa sui monti, qui verso il mare la temperatura non è mai stata troppo rigida e la pioggia, pioggia intensa, tenace, insistente, l’ha fatta da padrona per molti e molti giorni. Continua.  Appena il tempo di una breve passeggiata lungo la strada fra frazioni e santuari, poi la pioggia riprende, inesorabile. Fra le piante resilienti, quelle che non dovrebbero essere fiorite, ma lo sono, e con il nome preso in prestito da una parola greca che significa falco, o appunto sparviere, questi sbrindellati fiori giallini, che infestano prati e forre, si conquistano un certo rispetto. La storia è antica, la si fa risalire addirittura al naturalista romano Gaio Plinio Secondo (23 – 79), più noto per essere stato testimone oculare e vittima della distruzione di Pompei.

Sparviere Hieracium amplexicaule

Hieracium amplexicaule

Secondo questo studioso, i falchi sparvieri si cibano di questi fiori per rafforzare la vista. Di questa leggenda è rimasto assai poco, solo il nome di un fiore. Inutile cercare lo sparviere nei trattati di fitoterapia, o nei libriccini che descrivono le vere o presunte proprietà salutari delle piante. Non c’è genere più ignorato di questo, tanto frequente ai bordi delle strade e dei viottoli, tanto assente dalle citazioni botaniche, se non quando proprio non se ne può fare a meno. Un fiore negletto e ordinario, quasi disprezzabile, fiori visti, ma mai guardati. Io mi fermo e lo guardo, perchè non dovrebbe essere fiorito, a gennaio, sotto il diluvio.

Hieracium è un genere sterminato, distinto nel mondo in 5 sottogeneri, e in cui nel sottogenere Hieracium euro-asiatico e nordamericano, si contano almeno 6000 specie, e quindi molto difficile da classificare. L’ho già ricordato in questo blog, nuovo o vecchio, citandolo, non saprei dire se sempre in modo appropriato, nei giorni  29 ottobre 2009 e 29 marzo 2011

Benedetta Angelica

Angelica sylvestris

Angelica sylvestris

Angelica sylvestris

Angelica sylvestris

 

Stretta parente della leggendaria Angelica archangelica, non più presente allo stato spontaneo da nessuna parte, Angelica sylvestris è una nobildonna decaduta e si propaga con voluttà in ogni recesso del giardino. Quando cresce è una pianta imponente come la sua amica imperatoria.  Le infiorescenze racchiuse in ampie guaine verdaste, simili a quelle che proteggono la base delle foglie, si aprono in ombrelle fitte di microscopici fiori appena rosati. I fiori dell’Angelica archangelica, mi dicono, invece tendono al giallo, ma io non li ho mai visti.

Per non confonderla con le ombre verdi che ovunque la circondano, ho usato un cartoncino nero come sfondo. Il risultato mi ha lasciato incerta. Mi pare spaesata, e innaturale. E le lascio una rivincita inquadrandola senza artifici, ma visitata da imenotteri che classificherei fra le vespe. Spesso questi animali  ispirano un timore misto a ribrezzo e ciò non rende loro pienamente giustizia. Sono invece insetti utili perchè, essendo carnivori, si cibano di molti parassiti delle piante, come per esempio le orribili cimici che deturpano i raccolti da qualche anno a questa parte. Trovo le vespe molto belle, e ho imparato a non disturbare i loro nidi, come loro non disturbano me. E ho anche imparato che sì, anche le vespe possono impollinare (vedere qui).

Angelica sylvestris

Angelica sylvestris

Tornando alla nobile angelica, la tradizione la vuole pianta dalle proprietà miracolose. Secondo la leggenda, prende il nome dall’arcangelo Michele e si credeva che fiorisse ogni anno l’8 maggio, giorno in cui, nel XIV secolo, l’arcangelo sarebbe apparso a un eremita suggerendogli di usarla  per curare la peste.  Infatti Paracelso la utilizzò durante la grande peste di Milano nel 1510. Pianta magica del Rinascimento, la “radice dello Spirito Santo” era famosa per proteggere dagli incantesimi e dai malefici ed è stata per lungo tempo considerata una panacea in materia di prevenzione dalle infezioni e da tutti i tipi di malattie. Tuttavia, come si legge nella scheda a lei dedicata su actaplantarum, già Linneo aveva ridimensionato le sue supposte origini sacre.

Il genere, che comprende circa 60 specie in tutto il mondo, è citato dalla letteratura scientifica come antinfiammatorio, diuretico, espettorante e diaforetico, utile per raffreddori, influenza, epatiti, artrite, indigestione, tosse, bronchite cronica, pleurite, tifo, mal di testa, febbre, coliche, mal d’auto e di mare, reumatismi, infezioni batteriche e fungine e malattie dell’apparato urinario. Ma soprattutto la nostra angelica viene impiegata in fitoterapia perchè la sua grossa radice racchiude un olio essenziale benefico per tutto il sistema digestivo. Ha proprietà antispasmodiche, agisce sulle coliti calmando efficacemente gli spasmi intestinali e il dolore. E’ colagoga, cioè favorisce il flusso della bile, facilitando così la digestione, e cura aerofagia e meteorismo.

E’ anche una pianta alimentare, di cui si possono consumare fusti e foglie.