I faggi della Barbottina

Barbottina 01

Fagus sylvatica

La foresta della Barbottina si trova all’interno della foresta demaniale del Colle del Melogno, sulle Alpi Liguri in provincia di Savona ed è considerata la più belle faggeta della Liguria e tra le più belle d’Italia. In questa stupenda foresta si trovano esemplari dell’altezza fino a 50 metri con un tronco ben formato, forte, eretto, elegante. Inoltre è una foresta viva. Da alcuni decenni riconvertita da ceduo (bosco che si riproduce da polloni) in fustaia (bosco che si riproduce da semi), si può dire che abbia raggiunto attualmente una struttura ‘disetanea’, dove cioè sono presenti alberi in differenti stadi di crescita.

Barbottina 02

Fagus sylvatica

Gli alberi di faggio sono come colonne. Il fusto cilindrico ha la corteccia chiara e liscia, macchiata dai licheni biancastri e verso il pedale dove è più umido ricoperta da cuscinetti di muschio. Sono alberi ideali per un abbraccio confortevole(1).
Secondo Peter Wohlleben (2), i faggi che crescono indisturbati sono capaci di amicizia e persino di alimentarsi a vicenda. Questo perché ogni individuo, anche il più piccolo e debole, è importante per il benessere del bosco. Non so se questo sia vero alla Barbottina, ma so che nel profondo di questa foresta si entra in un mondo a parte, totalmente dominato da loro, giganti verdi e il loro seguito, che mantengono un equilibrio magico, dalle possenti radici, che somigliano a mani che si aggrappano(3), fino alle eteree sommità della chioma accarezzata dal vento.

Sul faggio:
una pagina dedicata
28 luglio 2008
6 novembre 2009
21 aprile 2018

(1)Giuseppe Barbera, Abbracciare gli alberi – Mondadori pg.186
(2)Peter Wohlleben, La vita segreta degli alberi Macro 2016
(3)Libereso, il giardiniere di Calvino, un incontro di Libereso Guglielmi con Ippolito Pizzetti, Muzzio 1993

Betulla

Betulla

Betula pendula

La betulla non è un albero comune nella mia regione. Però talvolta ne incontro una lungo le creuze di mezza campagna, in qualche piccolo giardino. In questa grigia giornata di caldo inverno, eccola nobile e spoglia, la corteccia bianca solcata da spaccature scure e i primi amenti maschili, rossicci, che compaiono assai prima delle foglie. Gli amenti, infiorescenze unisessuali a vaga forma di spiga, sono un segno distintivo degli alberi della famiglia della Betulaceae, anche se non si trovano solo in questa famiglia. Gioielli pendenti coprono d’oro i rami ancora spogli.
La betulla un albero molto attraente, con foglie delicate, a forma di piccoli rombi acuminati, con margini seghettati. Ne esistono numerose varietà ornamentali come la betulla svedese, “Dalecarlica“, con foglie incise in lobi affusolati e finemente dentati.

Betulla - amenti

Betula pendula

Betulla

Betula pendula
Fontanegli, giugno 2009

La betulla è un albero del Nord, un albero antico e leggero, nobile, etereo e resistentissimo. I tedeschi la chiamano la signorina dei boschi, per il portamento snello, la chioma rada e i colori chiari del tronco e delle foglie.  Nelle città del Nord, le betulle sono eleganti compagne di strada, come avevo mostrato in questo post a Stettino.  Fuori delle città formano foreste rade e luminose, spesso anche molto estese, in quell’ambiente freddo e inospitale che viene detto taiga. Infatti nonostante il loro aspetto etereo, questi alberi sono fra le piante più resistenti al freddo e al congelamento del suolo. Più rare e forse poco felici nel clima mediterraneo che si fa sempre più torrido, vivono meglio sulle montagne, soprattutto sulle Alpi fino a 2000 metri.

Discreta e temeraria, la betulla è una pianta magica, venerata nei riti celtici e consacrata al dio Thor. Simbolo di morte e rinascita, i giorni a lei dedicati erano quelli del solstizio d’inverno, quando le notti sono le più lunghe dell’anno. Ma la betulla è anche un albero luminoso e solare e nell’oroscopo celtico degli alberi il suo segno cade esattamente il 24 giugno, al principio dell’estate. Chi è nato sotto questo segno è una persona vivace, attraente, amichevole, non pretenziosa, modesta, non ama gli eccessi, odia la volgarità, predilige la vita nella natura e la calma, è un po’ ambiziosa e piena di immaginazione.

Che sia questa l’anima vera della betulla?

 

Brugmansia

Brugmansia

Brugmansia suaveolens

Parchi di Nervi (Genova), nei pressi del roseto. Un placido cespuglio dall’aria esotica nascosto dietro un padiglione semi abbandonato, allunga i rami verde giallo contro i vetri di una vecchia finestra. Conosco i fiori di questa pianta, lunghe campane dai colori sgargianti e delicati che pendono come gioielli e hanno meritato il soprannome di trombe degli angeli (vedi anche 20 luglio 2008). Oggi i fiori sono appassiti da tempo, ma nel tepore della costa ligure, l’arbusto non ha perso le foglie, che conservano il loro verde delicato, e, fra le foglie,  rimangono  i calici vuoti, e i frutti, lunghe bacche verdastre.
Queste principesche solanaceee si chiamavano un tempo tutte Datura, sia le specie arboree che quelle erbacee, o meglio così le aveva chiamate Linneo. Ma in seguito le varietà arboree sono state attribuite al genere Brugmansia, in onore ovviamente di un botanico, l’olandese Sebald Justinus Brugmans.

Brugmansia

Brugmansia suaveolens

Insieme alla cugina Datura, ma anche ad altre solanaceae come Hyoscyamus, Brugmansia è una pianta molto velenosa e l’arcano potere dei loro succhi è qualcosa di leggendario. Si racconta, tanto tempo fa come ai giorni nostri, che soltanto respirarne il profumo soave possa essere molto pericoloso e comunque provocare notevole malessere.  Contiene un alcaloide la scopolamina, chiamato anche burundaga, che è potentemente neurotossico e allucinogeno anche se per lo più è conosciuto come antidoto al mal d’auto e mal di mare, naturalmente in dosi ridottissime.  E sempre a dosi ridottissime viene utilizzato per provocare la dilatazione delle pupilla per esami oculari.

Podocarpus

Podocarpo

Podocarpus macrophyllus

In questa grigia stagione, per trovare qualche fronda bisogna andare in giro per parchi, nei vaghi giorni sereni, o quantomeno asciutti, a caccia del sempreverde, magari qualche conifera, astuta, ricercata, resistente. Quando si incontrano rarità o stranezze nei giardini botanici si fa meno fatica a riconoscerle, perché, talvolta, ci sono le targhette, o i cartelloni di spiegazione. Peccato che siano spesso laceri e sbiaditi, consumati dalle intemperie e a tratti illeggibili. Non in questo caso però e quando, diversi anni fa (7 gennaio 2010), ho incontrato questo alberello a Villa Durazzo Pallavicini, a Pegli, delegazione occidentale di Genova, la targhetta era in bella mostra e perfettamente conservata. Podocarpus macrophyllus è un piccolo albero che viene dal Giappone e appartiene alla famiglia delle Podocarpaceae, spesso coltivato come bonsai, con le sue lunghe foglie flessuose e il suo portamento mansueto e accondiscendente.

Podocarpus

Podocarpus macrophyllus

Il parco, splendido esempio di giardino romantico europeo, ricco di suggestioni e simboli,  stretto fra il rollio incessante del’autostrada Genova-Savona (che lambisce le sughere, Quercus suber, e incatrama le loro preziose cortecce) e l’avanzare delle costruzioni urbane, era da decenni abbandonato a un avvilente degrado. Ricordo di averlo visitato quasi clandestinamente fino al diroccato castello, aggirando le recinzioni arancioni e superando cumuli di macerie.
Ma per fortuna non sempre il degrado è irreparabile e, grazie anche all’intervento del FAI e certamente all’impegno di alcuni appassionati, è oggi tornato in parte al suo splendore, o quantomeno può offrire al visitatore l’imperdibile occasione di un viaggio nel tempo e nell’immaginazione. Concepito come un susseguirsi di scenografie romantiche, arditamente composte sull’articolato e scosceso pendio della costa ligure, molto vorrei dire su questo parco, che sempre mi seduce e strugge.  Ma, oggi come allora, mi fermo al Podocarpus, un po’ preoccupata di quelle tracce biancastre sulle foglie sottili, che fanno pensare come l’ambiente urbano è insalubre e non completamente innocuo per nessuno.

Castagno, albero esotico

Castagno

Castanea sativa
Bavari 26 novembre 2021

Davanti all’arco d’ingresso, retto da colonnette gemelle, del convento di Mariabronn, sul margine della strada c’era un castagno, un solitario figlio del Sud, che un pellegrino aveva riportato da Roma in tempi lontani, un nobile castagno dal tronco vigoroso; la cerchia dei suoi rami si chinava dolcemente sopra la strada, respirava libera ed ampia nel vento; in primavera, quando intorno tutto era già verde ed anche i noci del monastero mettevano già le loro foglioline rossicce, esso faceva attendere ancora a lungo le sue fronde, poi quando le notti erano più brevi, irradiava di tra il fogliame la sua fioritura esotica, d’un verde bianchiccio e languido, dal profumo aspro e intenso, pieno di richiami, quasi opprimente;

Castanea sativa

Castanea sativa

e in ottobre, quando l’altra frutta era già raccolta ed il vino nei tini, lasciava cadere al vento d’autunno i frutti spinosi dalla corona ingiallita: non tutti gli anni maturavano; per essi s’azzuffavano i ragazzi del convento, e il sottopriore Gregorio, oriundo del mezzodì, li arrostiva in camera sua sul fuoco del camino.

Castagno

Castanea sativa

Esotico e delicato, il bell′albero faceva stormir la sua chioma sopra l′ingresso del convento, ospite sensibile e facilmente infreddolito, originario d′altra zona, misteriosamente imparentato con le agili colonnette gemelle del portale e con la decorazione in pietra degli archi delle finestre, dei cornicioni e dei pilastri, amato da chi aveva sangue latino nelle vene e guardato con curiosità, come uno straniero, dalla gente del luogo.

Castanea sativa

Castanea sativa

Sotto l’albero esotico erano già passate parecchie generazioni di scolari (…). .. terminati gli anni di scuola, ritornavano qualche volta in visita al convento, fatti uomini portavano i loro figlioletti come scolari ai Padri, e sostavano un poco a guardar sorridenti e pensierosi il castagno, si perdevano di nuovo.
(Hermann Hesse – Narciso e Boccadoro – 1930)

Padre castagno
fiori  – 23 giugno 2008
padre castagno – 26 settembre 2008
i ricci quasi biondi – 9 ottobre 2008
le foglie prima che cadano – 5 dicembre 2008
sotto la neve – 29 gennaio 2011
frutti –  20 ottobre 2010
le stagioni del bosco – 26 marzo 2021

Le foglie nuove del peccio

Peccio Picea abies

Peccio
Picea abies

In maggio anche l’abete si mette un vestito nuovo. E’ arrivato in questo giardino molto prima di me, forse un albero di Natale per cui si cercava una rinascita. Dopo svariati decenni è alto e vasto e si sbraccia gentile contro il cielo cangiante della primavera.  L’abete rosso, Picea abies, è meglio detto peccio (in inglese ‘spruce’), e peccete sono dette le foreste formate da queste piante, nome che deriva da quello della resina, o pece, di cui è ricco e da cui si ricava la trementina. Si riconosce dai coni, pigne rossicce a squame arrotondate e aderenti, che penzolano dai rami come grossi sigari e quando si svuotano dai semi cadono a terra intere. L’abete bianco (Abies alba, in inglese fir),  invece ha coni che perdono le squame a poco a poco e stanno eretti sui rami più alti.

 Peccio Picea abies

Picea abies

Nei nostri boschi gli abeti non si mescolano al resto degli alberi. In mezzo ai castagni, carpini, ornielli, noccioli,  roverelle, e poco più su faggi e maggiociondoli di montagna, queste stupende conifere si stagliano rigide, separate dalla foresta. Portate qui da interventi più o meno discutibili di rimboschimento sono sempre un po’ spaesate, diverse. Oggi il rimboschimento si fa in un altro modo, quando si fa. Ma abeti e pini venuti da altrove restano e, quasi loro malgrado, diventano protagonisti del paesaggio.
Non è proprio a casa sua in questo giardino il peccio. Di norma prospera dai 500, meglio 800, metri di altitudine sul livello del mare, sulle pendici di montagne più maestose di queste arricciate colline. Talvolta anche qui ha sorretto la neve, quasi felice di tollerarne il peso.  E ugualmente si ricopre di raffinati germogli verde tenero, che teneri sono davvero, una curiosità commestibile, quasi una leccornia, dal vago sapore di limone. L’abete è una specie officinale. In fitoterapia si raccolgono le gemme in marzo, e le  foglie da giugno ad agosto. Sono ricche di vitamina C e hanno proprietà antisettiche e balsamiche.

Pino di Norfolk

Araucaria heterophylla

Pino di Norfolk Araucaria heterophylla
villa Sauli Pallavicino Arenzano (Ge)

L’isola di Norfolk è una piccola isola del pacifico, a est dell’Australia e a Nord della Nuova Zelanda. Non so come la chiamavano i primi polinesiani che vi abitarono in 14° secolo, prima che ci arrivasse un tale James Cook, nel 1774 e la intitolasse a una duchessa inglese. Dopo di che è tutta una storia di colonie penali, ammutinamenti e eredi degli ammutinati, vicende esotiche e un po’ romanzesche. Nel frattempo lei, Araucaria heterophylla anche detta  Araucaria excelsa, cresceva indisturbata, o quasi, albero endemico di questa sola isoletta. Le Araucarie, già l’ho detto, sono alberi australi, crescono tutte quante a sud dell’equatore e alle nostre latitudini si trovano soltanto deportate in parchi e giardini. Questo raffinato esemplare di pino di Norfolk fa bella mostra di sè sul parterre della villa Sauli Pallavicino, meglio nota come villa Negrotto Cambiaso, di Arenzano (Genova).

Pino di Norfolk

Araucaria heterophylla
foglie giovani

Il pino di Norfolk è un alberello piramidale che nel suo habitat originale può raggiungere i 60 m di altezza. Le sue foglie sono di due tipi (da cui il nome heterophylla, foglie diverse): sui rami giovani, ha fitte foglie aghiformi morbide e non pungenti, mentre sui rami più adulti le foglie diventano acuminate e pungenti, simili a quelle della A. araucana.

Oltre all’araucaria, il parco Sauli Pallavicino racchiude altri sorprendenti segreti. Nel piccolo laghetto vive una medusa di acqua dolce, la Craspedacusta sowerbii, nativa del fiume Yangtse Kiang in Cina, ma ormai diffusa in tutti i continenti.

Un aggraziato viale di aceri americani (Acer negundo) costeggia la splendida serra liberty, costruita nel 1931 per volere della nuova proprietaria, la marchesa Matilde Negrotto  Cambiaso. Peccato che in questa stagione, o forse sempre, la serra fosse completamente vuota.

Roverella

Roverella

Roverella
Quercus pubescens

(Riprendo un post del vecchio blog 2 gennaio 2009)

Ci sono gli alberi che si spogliano, ornielli, tigli, bagolari, meli e ciliegi sono scheletri nudi contro il cielo. Ci sono gli alberi che conservano le foglie, lecci, olivi, corbezzoli, e sembra che il freddo neppure li sfiori. E poi ci sono le roverelle.
Nella leggenda, un contadino ebbe un giorno necessità di chiedere un favore nientemeno che al diavolo. Si sa che la creatura maligna è molto potente e raramente nega il suo aiuto, perché smisurato è il vantaggio che chiede in cambio. Ma il contadino era scaltro e promise sì di servire il diavolo, ma domandò pazienza. “Certamente, disse, sarò il tuo schiavo quando la roverella perderà tutte le foglie.” Il diavolo gongolava. Le foglie delle querce invecchiano nella brutta stagione e bastava aspettare che il vento si facesse più deciso e tutte sarebbero state portate via. Ma i mesi passavano e la roverella le foglie non le perdeva. Color della terra e avvizzite, le foglie secche rimanevano tenacemente attaccate al ramo e non c’era bufera che riuscisse a strapparle tutte. Cadevano dall’albero soltanto per lasciar posto alle nuove gemme, nuove tenere foglie che inverdivano i rami. Quando si rese conto della beffa, il diavolo andò su tutte le furie e non potendo prendersela con il contadino che lo aveva imbrogliato, si scagliò contro l’albero e affondò i suoi artigli aguzzi sul lembo delle foglie, lacerandole ad una ad una. Perciò le foglie della roverella hanno da sempre i lembi profondamente incisi, come solcati da unghie taglienti.

Roverella

Quercus pubescens

La roverella (Quercus pubescens, cioè quercia pelosa) è la quercia più comune nei nostri boschi, semplicemente la quercia. Non è così imponente come altri alberi del suo genere, spesso è poco più di un arbusto, anche se può raggiungere i 20 metri di altezza. Ho scattato questa fotografia proprio oggi, sul margine della strada, via alla Chiesa di San Giorgio di Bavari. Le chiome giallo brune delle roverelle splendono al sole e contrastano fortemente con il verde cupo delle chiome dei lecci (10 novembre 2008) e quello lucido dei corbezzoli, ancora carichi di fiori e frutti.

vedi anche “Gli ospiti della roverella“, 16 febbraio 2019.