Chi prospera e chi resiste

Chi prospera e chi resiste - Calicanto d'inverno

Chimonanthus fragrans

Chi prospera e chi resiste - Alisso

Lobularia maritima

 

L’anno nuovo è cominciato con scorci di limpido sole e aria tiepida, solo a tratti disturbata da folate di vento selvaggio. Il giardino è nitido e spoglio, anche se a ben vedere sono molte le piante che resistono o addirittura mostrano il meglio di sè proprio in questo periodo.

Non soltanto la Camellia hiemalis che ho mostrato ieri, ma anche il calicanto d’inverno (Chimonanthus fragrans)  si è riempito di fiori.

Sull’aiuola più bassa, dove il Solanum non ha ancora smesso di fiorire,  scopro un minuscolo cuscinetto di alisso (Lobularia maritima), coperto di corolle violette, dal dolcissimo odore di miele.

La pianta capostipite di tutti i lamponi (Rubus idaeus, 1 agosto 2008) del giardino, come ogni anziana patriarca che si rispetti, fiorisce ormai assai poco. Ma proprio in questi giorni ha deciso di maturare una drupa, anzi l’agglomerato di drupe detto drupecetum. Così rosso e vulnerabile, probabilmente duro e insapore, certamente  nessuno oserà strapparglielo.

Chi prospera e chi resiste - Rubus idaeus

Rubus idaeus

Chi prospera e chi resiste- Grespino

Sonchus oleraceus

E che dire del grespino (Sonchus oleraceus, 19 febbraio 2009), che cresce nelle crepe del selciato, fra il cemento e le mattonelle, e si alza dritto e deciso, sotto lo sguardo sornione della gatta Patty?  Si adorna sempre, in qualsiasi stagione, di capolini giallo sole, densi, solidi, grassi.  Parafrasando Betty Smith e il suo albero del cielo (Ailanthus altissima), potremmo dire che  “li si direbbe bellissimi, se non fosse che ce ne sono troppi”(1).

Io, invece, osservo attenta e preoccupata quanto è rimasto della piantina di Filipendula ulmaria che spero tanto, ma proprio tanto resisterà all’inverno, e poi si troverà bene dove l’ho sistemata, e crescerà prospera e felice. Spero.

Chi prospera e chi resiste - Filipendula ulmaria

Filipendula ulmaria

(1)Betty Smith – Un albero cresce a Brooklin, New York 1947

La stagione delle camelie

Camelia Sasanqua

Camellia hiemalis  ‘Kanjiro’

Camelia

Camellia japonica

 

Talvolta qualcuno mi chiede quando fioriscono le camelie. Benchè la risposta sia semplicemente ‘in inverno’, occorre specificare di quale camelia stiamo parlando. Ho sempre avuto nel mio giardino due piante di camelia, un esemplare del tipo Sasanqua o meglio C .hiemalis,  specie assai resistente al freddo,  che fiorisce all’inizio dell’inverno, quando tutte o quasi tutte le altre piante muoiono o vanno in letargo.

Questa camelia, come ogni anno in questo periodo, è già coperta di fiori, e l’ho già ho mostrata in precedenza (24 novembre 200820 dicembre 2009, 3 gennaio 2010, 30 gennaio 20116 dicembre 201118 ottobre 2014)

La Camellia japonica ( 16 febbraio 200930 gennaio 2011 )  invece sta ancora preparando i boccioli per la fioritura di fine inverno.

 

Senecio galpinii

Senecio galpinii

Senecio galpinii

 

I fiori di questa stagione non abbondano, anche se non sono così rari come si vorrebbe pensare. A volte però occorre cercare qualche pianticella singolare, di origine oscura, per allietare di colore una stagione che l’iconografia tradizionale vuole soprattutto bianca.

Questa pianta non è una crassulacea, anche se potrebbe davvero sembrarla, con fiori di forma e colore somiglianti a quelli della stupenda Crassula falcata.  Ma quando i fiori appassiscono, la pianta si fa riconoscere. I fiori diventano ciuffi quasi sferici di peli bianchi, i pappi dei semi, così simili alla testa di un anziano, aspetto questo che caratterizza tutte le specie del genere Senecio (dal latino sénex vecchio).  Notevole è il contrasto fra il grigio azzurro delle foglie carnosette e la tinta accesa dei fiori.

Per trovare dei fiori in questa stagione bisogna andare a cercarli lontano. Non so con certezza di dove sia originario questo senecio,  ma è abbastanza simile al S. cephalophorus, che è originario del Sudafrica, precisamente della provincia del Capo, come mi informa il forum Cactofili, che credo fonte abbastanza affidabile.  Non saprei neppure definire bene la differenza fra i due,  S. cephalophorus e S. galpinii, anche se dalle immagini  il secondo mi pare più somigliante.  Entrambe le piante sono talvolta classificate nel genere Kleinia, nome dedicato al prussiano Jacob Theodor Klein (Plinius Gedanensium, 1685-1759) che fu giurista, storico, zoologo, botanico, matematico e diplomatico, e ammirato da Linneo.

Graptopetalum

Graptopetalum paraguayense

Graptopetalum paraguayense

Il suo nome completo è Graptopetalum paraguayensis ed è una pianta grassa piuttosto diffusa in vaso e nei giardini. Diffusa e incompresa, come tante altre della sua razza. Il nome corretto l’ho imparata per caso nel giardino botanico di Roma, quando l’ho incontrata e riconosciuta come un’abitante anche del mio giardino, che sempre avevo scambiato per qualche varietà di  semprevivo (vedi anche 31 ottobre 2008). Effettivamente al semprevivo assomiglia, è comunque della famiglia della Crassulacee, ma viene da più lontano, esattamente dalla stato messicano del Tamaulipas. In inglese ha nomi volgari di ‘Mother-of-pearl-plant’, cioè pianta madreperla e ‘Ghost plant’, pianta fantasma. I suoi fiori sono stelline bianche, piuttosto simili a quelli delle borracine (vedi 4 maggio 2010).

Graptopetalum paraguayense

Graptopetalum paraguayense – fiore

La magia di queste piante, come molte altre crassulacee, è la capacità di rigenerarsi a partire da una singola rosetta, anche malconcia. Anch’io ne avevo raccolto un a rosetta, e l’avevo sistemata in un vaso, ben piantata nella terra, pazientando. Ma  non bisogna aspettare a lungo, nella bella stagione, per vedere le rosette moltiplicarsi, crescere e fiorire. Tuttavia nella stagione più fredda, anche se  mite come alle nostre latitudini, questa piccola pianticella prodigiosa ha bisogno di un po’ di attenzioni. In molti giardini il suo destino è essere sistemata sulle sommità e negli angoli dei muretti di separazione, in vasi di pietra e cemento, in una posizione defilata e definitiva che non gli rende giustizia. L’ho fatto anch’io,  lo confesso,  lasciandola al suo destino in due vasi decorati in cima alle colonnine della scala, dimenticandomela un po’ durante l’inverno.  La pioggia e la grandine l’hanno umiliata parecchio e nonostante l’impegno a riprendersi nel sole della primavera, le ferite nere sulle foglie grassocce non erano un bel vedere. Quest’anno ho provveduto per tempo a ripararle tutte nella serra, insieme al Sedum spectabile e all’Aeonium arboreum, anche quest’ultimo rinato dalle sue rosette.

Olivo, albero immortale

Olivo

Olivo Olea europea

Olivo di Paestum

Olivo Olea europea
Paestum – 29 settembre 2016

 

La pianta dell’olivo non cessa mai di stupirmi. Longeva, ai limiti dell’immortalità, sembra incarnare tutti i simboli della civiltà mediterranea.  Forse, in questi nostri giorni, anche i suoi limiti. Una tenacia atavica e tanti nuovi nemici.

Contro il cielo terso delle colline liguri, si stagliano argentee le chiome dei piccoli olivi di Borzone, così esili e fragili a confronto dei loro fratelli millenari incontrati presso le rovine di Paestum.

Siamo nell’entrotrera di Chiavari, comune di Borzonasca, presso l’abbazia di Borzone, una chiesa monastica antichissima, le cui origini si perdono veramente nella notte dei tempi.  Oggi, soprattutto d’inverno, questo luogo appare romito e strano, e  per raggiungerlo bisogna seguire una piccola strada tortuosa verso il niente. Ma nei tempi passati, quando la vita si svolgeva in altitudine e gli inutili e scoscesi fondovalle non interessavano nessuno, questa chiesa era probabilmente un punto di riferimento sicuro per viandanti e pellegrini.

L’inverno non è certo la stagione delle foglie, ma sono tanti sono gli alberi che non se ne liberano e invece le conservano tenacemente anche nelle temperature rigide e nella bufera.  Certo, le temperature non devono essere troppo rigide, nè il vento troppo cattivo, poichè nessun essere vivente è veramente invincibile contro la forza degli elementi. Oltre le mosche e i crudeli parassiti stranieri, l’atavico nemico dell’olivo è il gelo. Come racconta Gavino Ledda,  nel suo splendido libro “Padre padrone”,  l’olivo rischia soprattutto alla fine dell’inverno, a causa delle gelate tardive. Il padre di Gavino aveva appena messo a dimora giovani olivi di radiose speranze, quando verso la metà di marzo il gelo improvviso glieli uccise tutti. E piena di pathos e poesia è la descrizione dell’agricoltore disperato che si aggira fra i suoi alberi spezzandone i rametti ormai disseccati. Così, nel mio piccolo, è capitato anche a me, quando l’olivo del mio giardino (17 giugno 2009), colpito dal gelo di un febbraio rabbioso, si era fatto nero e secco, prosciugato. Ridotto quasi a un moncone, cominciò a riprendersi lentamente durante l’estate, buttando fuori foglie un po’ dappertutto, dal tronco, dai rami, come un animale peloso. Ma i frutti hanno tardato a tornare, quattro o cinque anni almeno perchè le prime olive tonde e sode rifacessero capolino fra le foglie. Ora è risorto, un alberello più forte e sereno di prima. Fino alla prossima gelata,  sempre che non arrivi prima qualche infida malattia esotica.

Ancora un’acantacea, Asystasia gangetica

Asystasia gangetica

Asystasia gangetica
orto botanico di Palermo

Un nome arcano per un’altra acantacea delicata e ricca di principi officinali, Asystasia gangetica, che mi suggerisce quale potrebbe essere il suo probabile luogo di origine, l’India.

Pianta di facile ambientazione, ha tutte le caratteristiche per attecchire stabilmente e diventare invasiva nei luoghi dal clima caldo e mite.  La sotto specie A. gangetica micrantha è già nel famigerato indice delle piante nocive e bandite come pericolose infestanti dalle campagne australiane.

In inglese ha molti nomi, violetta cinese, violetta delle Filippine e digitale rampicante.  Con la digitale, che in inglese si chiama ‘foxglove’, guanto di volpe, non ha nulla a che fare e soprattutto non contiene alcun principio cardiotonico tossico.  Viceversa è molto usata in etnomedicina, nei paesi dove prospera senza essere perseguitata, Sud Africa, India, Camerun, Nigeria e Kenya per esempio. Può essere impiegata per diversi generi di problemi, dall’ipertensione, ai reumatismi, all’asma, ma  anche per il diabete e come vermifugo.

E’ anche una graziosa pianta ornamentale, volubile, generosa, anche se ovviamente teme il freddo.

Acanthaceae da paesi lontani

Le Acanthaceae sono una famiglia di piante che prende il nome dal fastoso acanto (Acanthus), antica pianta mediterranea dai grandi fiori bianchi. Ma le Acanthaceae di questa pagina, tutte fotografate in Sicilia, vengono da paesi lontani e le vicissitudini della loro classificazione si legge nei loro nomi.

Acanthaceae - Thunbergia erecta

Thunbergia erecta
orto botanico Palermo

Acanthaceae - Thunbergia grandiflora

Thunbergia grandiflora

La classificazione delle piante in botanica è soltanto apparentemente noiosa, ma può essere vista invece come un’avventura appassionante. Alcune specie vegetali sono note dall’antichità della nostra civiltà occidentale, ma altre sono state scoperte e adattate alla sistematica inventata da Linneo, attraverso un processo di prova ed errore, di andate e ritorni, e soprattutto attraverso il contributo di molte persone diverse. I botanici dei secoli passati erano quasi tutti degli aristocratici, colti e appassionati, giravano il mondo alla ricerca di nuove piante.

Prendiamo per esempio il signor Carl Peter Thunberg, svedese come Linneo e suo allievo, a cui a soli 24 anni venne proposto di andare in Giappone per studiare le piante di laggiù. Alla fine del 1700, gli europei conoscevano assai poco le piante asiatiche, nè era agevole osservarle. Quando Carl Peter riuscì finalmente ad arrivare in Giappone, grazie a un contratto con la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, scoprì che non poteva affatto visitare il paese, ma era praticamente confinato a Dejima, un’isola artificiale nella baia di Nagasaki, costruita nel 1634 per volere dello shōgun Tokugawa Iemitsu per ospitare gli insediamenti commerciali olandesi. Per fortuna aveva pratica di chirurgia (questi studiosi di botanica in realtà erano tutti dei medici) e ai giapponesi interessava. Così barattava le sue conoscenze mediche con piante che gli venivano portate da fuori e che lui esaminava e disponeva in un erbario ndlla sua isola di confino. Finalmente ebbe la possibilità di fare un vero viaggio nel Giappone fino a Edo, l’attuale Tokio, e osservare centinaia di piante nei loro luoghi di origine. Dopo altri viaggi fra Ceylon e il Sudafrica, tornò in patria trentaciquenne e si dedicò alla catalogazione di tute quelle piante asiatiche, diventando il successore di Linneo all’Università di Uppsala e guadagnandosi l’appellativo di Lineeo giapponese.  Il suo nome compare in più di 250 specie di piante, dal genere Thunbergia all’appellativo specifico thunbergii.

 

Acanthaceae - Justicia carnea

Justicia carnea
orto botanico Palermo

Acanthaceae - Justicia aurea

Justicia aurea
orto botanico di Palermo

Ed ecco altre due Acanthaceae,  due specie di  Jacobinia, almeno così sono chiamate nell’orto botanico di Palermo. Ma mai fermarsi alla prima indicazione. Mentre faccio qualche ricerca in rete capisco subito che questa pianta viene spesso chiamata  Justicia e decido di chiedere lumi a un superesperto, nella persona di Antimo Palumbo, studioso e divulgatore di botanica fra i più competenti che conosca. Ed ecco la sua risposta.  Il nome corretto  è Justicia carnea Lindl, mentre  Jacobinia carnea (Lindl.) G. Nicholson è sinonimo.  E parimenti  Jacobinia aurea è sinonimo di  Justicia aurea Schltdl, e quest’ultimo è il nome corretto.

La storia dell’attribuzione del nome a  Justicia carnea è complicata. Nel 1831 John Lindley la chiama Justicia carnea nell’ Edwards’s Botanical Register, una rivista illustrata di orticoltura che fu pubblicata in Inghilterra dal 1815 al 1847.  Il nome del genere era però stato creato da Linneo che lo aveva dedicato a Sir James Justice (1698–1763), un giardiniere orticultore scozzese che delapidò la sua fortuna per la passione per il giardinaggio.  Successivamente ha avuto molti altri nomialtri nomi , ma alla fine, dopo aver appurato che si trattava della stessa pianta,  è rimasto valido il nome più antico, quello creato da John Lindley, che oggi è il nome botanico corretto, Justicia carnea Lindl.

Ma da dove deriva il nome Jacobinia, che per queste piante è il sinonimo, ma per altre come Jacobinia heterophylla è il genere corretto?  Si potrebbe pensare, mi dice Antimo Palumbo, ai giacobini, quel movimento politico sorto durante la Rivoluzione francese e legato alla figura di Robespierre, il cui nome è diventato sinonimo di radicalismo o posizioni ardenti e intransigenti o ancora peggio esaltate o settarie.  Invece con i giacobini  la Jacobinia non c’entra. Il nome fu infatti creato nel 1847 dal botanico svizzero Stefano Moricand, prima commerciante di orologi in Italia, dove studiò le piante  in diverse regioni,  e poi botanico a tempo pieno in Svizzera dove  si occupò di sistemare e classificare le raccolte naturalistiche effettuate in Brasile dai botanici J.L. Berlandier, J.S. Blanchet and J.A. Pavón.  Il nome imposto alla pianta da Moricarnd  si rifà a Jacobina una città del Brasile nello stato di Bahia, dove probabilmente essa fu scoperta.

E così studiando l’origine dei nomi botanici si può anche divertirsi con la storia.

Di questo stesso genere è la pianta gamberetto, Justicia brandegeana, che ho mostrato qualche tempo fa.

Glicine monumentale

Glicine Quando si pensa ad alberi monumentali, centenari,  dal tronco massiccio, non viene in mente il glicine, pianta per lo più conosciuta per la romantica fioritura. Eppure anche il glicine può diventare un rampicante monumentale, come la Wisteria fluribunda del parco di villa Taranto a Verbania, uno dei giardini più belli d’Italia.

Anch’io, nel mio piccolo ho incontrato un glicine ‘monumentale’. E’ vicino a casa mia, in via Fontanegli, una stradina quasi di campagna, stretta e ripidina che scende da Bavari verso la chiesa di Fontanegli.  Il glicine di queste foto è con ogni probabilità Wisteria sinensis, il più comune e domestico, e cresce di fronte a una grande casa gialla, che ho sempre visto chiusa, come altre grandi case magiche di quella zona. A sinistra in una fotografia di inizio aprile 2009, ancora spoglio, pieno di germogli pronti a esplodere, mostra tutta la gettata del  tronco. In quei giorni avevo anche pubblicato una foto dei fiori con breve descrizione (7 aprile 2009)
Ed ecco ancora lui nelle foto qui sotto, quasi dieci anni più grande, in questo pomeriggio di ottobre, il fogliame è ancora rigoglioso e i fiori si sono ormai trasformati in frutti. Ma il tronco, muschioso e contorto, si è fatto ancora più massiccio. Glicine, tronco

Il glicine è anche una grande protagonista della primavera in città.  Generoso e frugale, cresce anche abbandonato a se stesso, si arrampica su cancelli e muri, come nella villa abbandonata di via Posalunga, che ho mostrato in questo post.  Ho sperimentato di persona la perseveranza e attaccamento alla vita della Wisteria, perchè nel mio giardino, o meglio su una fascia del mio orto dove in genere coltivo i pomodori, cresceva, e cresce ancora, un virgulto di glicine che, ingenuamente, avevo progettato di estirpare.  Ma non ne ha voluto sapere. Più in profondità provavo a reciderlo con la mia zappa, con maggiore vigoria è sempre ritornato a risorgere e ad arrampicarsi verso il cielo. Alla fine ha vinto lui, ed è rimasto dov’era, un po’ negletto, vendicandosi con una fioritura assai scarsa. Forse, un giorno, mi perdonerà.
Glicine
Ho ripensato al glicine del mio giardino  leggendo un piccolo, grande libro(1), dove il botanico Stefano Mancuso spiega come la testarda vitalità dei vegetali derivi dalla loro organizzazione ‘modulare’.  Mentre a livello microscopico e cellulare vegetali e animali in fondo si somigliano parecchio,  a livello macroscopico gli organismi di questi due mondi sono profondamente diversi.  Gli animali sono costituiti di organi separati, ciascuno più o meno essenziale all’esistenza, tanto che la lesione del centro vitale, per esempio cuore o cervello, provoca la morte definitiva di tutto l’organismo, e solo in casi eccezionali, o se sono colpiti organi accessori,  il corpo è in grado di riparare il danno e rigenerarsi.  Nelle piante invece le funzioni sono distribuite, ed è come se ogni pezzetto della radice,  ogni foglia racchiudesse dentro di sè l’intera funzione vitale.  Questa organizzazione è fondamentale per organismi radicati, o meglio sessili, che non possono sfuggire ai pericoli dandosela a gambe.  Ed è per questo che tutte le piante possono resistere ad asportazioni massicce, impensabili per un animale.

(1) (Botanica, 2017, Aboca Ed.)

Zamia

Zamia

Zamia furfuracea

La Zamia non è una palma, anche se alle palme assomiglia. Appartiene alla famiglia delle Zamiaceae, il che non aggiunge molto a quello che sappiamo di lei. Con la Cycas, un’altra pianta che assomiglia a una palma, ma con le palme non ha niente a che fare, appartiene all’ordine delle Cicadali, piante antichissime, veri fossili viventi.

La incontro nel giardino di villa Durazzo a Santa Margherita ligure, un piacevolissimo parco a poca distanza dal mare, per fortuna aperto al pubblico e in cui si svolgono spesso delle belle manifestazioni, come l’appuntamento di Pasqua della fiera ‘Erba persa‘.
Lunghe foglie lucide si dipartono da un fusto sotterraneo, sorreggendo al centro una grande pigna, che potrebbe essere il frutto (anche se in questi vegetali non si dovrebbe parlare di frutti) femminile che contiene i rossi, velenosissimi semi.
Ho fatto fatica a riconoscerla, mi ricordava la Cycas, ma alquanto differente. E’ una pianta piuttosto rara e non menzionata neppure nei comuni manuali di piante da appartamento. Eppure come pianta da appartamento è molto decorativa, seppure le sue notevoli dimensioni la rendano di difficile collocazione, mentre crescerla all’esterno è più problematico perchè soffre il freddo invernale.

Alla fine l’ho scovata, anche in vari siti web, perchè ultimamente è diventata di moda. L’unica nota negativa è la tossicità delle sue bacche che possono, come nel caso delle Cycas, uccidere un incauto animale.

Ginestrella

Ginestrella

Ginestrella – Osyris alba

Leggo ‘ginestrella’ e penso che non può essere. Che cos’ha della ginestra questa pianticella che non sfoggia nè sgargianti fiori gialli a forma di farfalla nè bacelli verdi o neri? Infatti con la ginestra non c’entra affatto secondo i botanici, che la classificano nella famiglia delle Santalaceae, insieme a nobili esotici come il sandalo (Santalum album). Eppure ricordano le ginestre i suoi steli coriacei, le sue foglioline sottili e spesse, costruite per resistere alla siccità delle garighe mediterranee. Pianta sempreverde, xerofita come tutta la famiglia, non teme la sete e non perde le foglie durante il mite inverno della costa.
Il suo nome vero è Osyris alba, osiride si potrebbe chiamare, se non fosse che si rischia di confonderla con una eccellentissima divinità egiziana. Neppure è bianca, alba, perchè anche i suoi fiorellini, che sbocciano nel mese di giugno come per le altre ginestre, sono pallidamente giallini. Le bacche, rosso arancio, tonde, lucide e separate, ricordano persino un Solanum (S.capsicastrum 1 novembre 2009), con il quale però la piccola osiride non andrebbe per niente d’accordo. Non ho mai pensato, neppure per un momento, che potessero essere commestibili, e se per un frutto c’è un dubbio sulla digeribilità, è assai prudente astenersi dall’assaggiarlo. Però i miei riferimenti etnobotanici riferiscono di un utilizzo, in val d’Orcia, per le odontalgie(1), mentre una recente pubblicazione dell’Università della Giordania riporta di aver identificato nella pianta un alcaloide, l’osirisina, ed altri composti con significative proprietà antibatteriche (2).
Come certe ginestre, anche la ginestrella osiride viene utilizzata per scope e legacci, per la sua fibra robusta e tenace, ma flessibile.

(1) De Bellis A. Erbe di Val Norcia (1988) Ed. Del Grifo Montepulciano – citato in Guarrera PM – Usi e tradizioni della flora italiana Aracne Ed.(2006)
(2)Al-Jaber HI et al Chemical constituents of Osyris alba and their antiparasitic activities (2010) J Asian Nat Prod Res. 12(9):814-20