Perilla frutescens

Perilla frutescens

Perilla frutescens

Perilla frutescens viene chiamata comunemente basilico cinese e del basilico qualcosa deve avere perché il suo nome antico, quello datole da Linneo (basionimo, cioè sinonimo ormai obsoleto) era Ocimum frutescens, cioè proprio lo stesso genere del basilico nostrano che si chiama Ocimum basilicum e deriva dal nome greco dato a questa pianta odorosa, ὤκῐμον. Da dove venga il suo nuovo nome, piccola pera, mi riesce difficile capire. Come molte asiatiche, la perilla sta conoscendo un periodo di grande successo, scelta come ornamentale per il suo fogliame, che è spesso rossastro e frastagliato, ma anche perché è specie commestibile e ricca di ingredienti salutari.

E’ arrivata nel mio giardino quasi per caso, un mazzo di erbette che la signora Mariana (di cui già ho parlato in questo post) mi ha letteralmente messo in mano, e io l’ho sistemata in un vasetto, senza sapere bene che cosa fosse. Caparbia come tutte le piante cinesi (ormai ho imparato a conoscerle), è diventata un cespuglio e ho dovuto trasferirla in terra, in un angoletto di fortuna, dove per tutta la scorsa estate si è contesa  spazio e luce con altre varie piante da fiore.

Perilla frutescens

Perilla frutescens

Il tagete e l’impatiens le sono letteralmente cresciuti sopra e lei è rimasta in ombra quasi totale, tanto che non avrei scommesso granché sul suo successo. Però l’estate 2022 è stata talmente calda e siccitosa, che quel posticino nell’ombra umida è stato per lei una grande fortuna. L’indomabile perilla è cresciuta, fiorita e ha inseminato l’aiuola per benino. Magari crescesse così il basilico nostrano!

Ho recuperato i microscopici semi, anche se in realtà non era veramente necessario per mantenerla, dato che ci aveva già pensato da sola ed è rispuntata, impudente, dov’era l’anno scorso. Quella nata dai semi raccolti, l’ho sistemata fra l’erba aglina e la rosa banksiae e sole ne ha preso decisamente di più, crescendo un cespuglio folto, ricco di fiori rosa. Insomma è diventata proprio frutescens, che significa dal portamento arbustivo. Le foglie non si sono mai colorate di rosso scuro come nelle varietà più ornamentali, ma sono larghe e verde, con i bordi rossicci. Confesso che per ora non l’ho ancora assaggiata.

Quest’erba è ampiamente utilizzata nella cucina giapponese, dove si chiama egoma, e può certamente arricchire le nostre insalate di quel gusto orientale che stimola l’appetito. Un altro dei suoi nomi asiatici è shiso, che distingue tuttavia la varietà crispa con foglie decisamente rosse. Molte pagine si dilungano sulle sue virtù quasi miracolose, definendola per esempio ‘la pianta che allunga la vita di dieci anni’. Naturalmente tutto questo è divertente, ma forse quest’erbetta non ha bisogno di tutta questa campagna promozionale. Mi pare piuttosto spavalda e certamente baderà anche troppo bene a se stessa e alla sua diffusione.

Zafferanastro giallo

Sternbergia lutea

Sternbergia lutea

Affascinante e ornamentale, Sternbergia lutea, sternbergia gialla, è un’altra di quei fiori che ricorda lo zafferano (il magico Crocus sativus, famiglia Iridaceae), ma che con lo zafferano ha veramente poco in comune. La famiglia è quella delle Amarillydaceae, la stessa della sterminata schiera degli Allium, ha sei stami ed è abbastanza velenosa. I sintomi che provoca in chi malauguratamente ne ingerisca sono simili a quelli causati dalla colchicina, l’alcaloide del colchico, anche se non è proprio parente neppure del colchico, che appartiene ancora ad un’altra famiglia. Per fortuna in questo caso qualsiasi confusione con il vero zafferano è praticamente impossibile, perché la sternbergia è gialla che più gialla non si può.

Sternbergia lutea

Sternbergia lutea

Così il nome volgare di zafferanastro deriva semplicemente da una somiglianza nella forma, nel portamento e nel periodo di fioritura. Il nome scientifico invece è un omaggio al botanico boemo, il conte Kaspar Maria von Sternberg (1761 – 1838), che oltre a scoprire questo genere di piante fu un grandissimo studioso del mondo naturale.  Questa specie, insieme ad  altre del genere, cresce spontaneamente in molte regioni italiane ed è naturalizzata in diverse altre, fra cui la Liguria. Tuttavia incontrarlo in natura non è così facile come imbattersene in qualche giardino, dove in questa stagione i mazzetti delle sue sfavillanti corolle fanno capolino in ogni angoletto. Vorrei catturarne una nuvola oltre l’inesorabile recinto, ma riesco soltanto a mettere a fuoco la rete. Per fortuna quest’anno ne ho qualcuno anch’io, sistemati provvisoriamente in una vaso lungo. Le sternbergie sono piccoli bulbose di poche pretese, e dopo la breve fioritura, crescono cespuglietti di lunghe foglie verdissime. E’ la vita della maggior parte delle bulbose, un fiore sfavillante ed effimero e tanti mesi di attesa. E in questi giorni l’attesa si fa interessante perché stanno proprio per fiorire gli zafferani.

Erba di San Pietro

Erba di San Pietro

Tanacetum balsamita

Il suo vero nome è Tanacetum balsamita, anche se è nota anche come Balsamita major. Come gli altri tanaceti è molto aromatica e ha fiori a capolino giallo oro, spogli perché non hanno ligule.  E’ un’antica pianta coltivata per le sue proprietà officinali e per l’aroma, forte e amaro, delle sue foglie, riscoperta recentemente sia dall’erboristeria che dalla culinaria. Chi la incontra una volta, non la dimentica.  L’ho provata nelle frittate e nelle torte di verdura, ed è ottima se usata con molta moderazione. Il gusto è deciso come la menta, ma più amaro, e l’odore è altrettanto acceso. Non è una pianta autoctona del nostro territorio, viene dall’Asia ed è un’archeofita casuale, cioè è diffusa in modo sporadico da molto tempo, e non si sa bene da quanto. Ha una storia antica e tanti nomi, oltre erba di San Pietro, erba amara, menta romana, erba della Bibbia e erba di Santa Maria. Poi la coltivazione e la cura hanno fatto il resto, così che anche oggi la pianta ha una certa diffusione nei giardini e negli orti. I fiori più belli, solari, li mette d’autunno, proprio quando il sole comincia ad impallidire.

Victoria cruziana

Victoria amazonica

Victoria amazonica
Balboa Park, San Diego, California

In principio si chiamò Victoria regia perché la regina Vittoria di Inghilterra era appena salita al trono e gli scopritori non vollero perdere l’occasione di dedicarle una pianta tanto eccezionale. Così, come racconta mirabilmente Silvia Fogliato in questa pagina, questa spettacolare ninfea dell’Amazzonia divenne l’emblema della nuova monarchia britannica.
Victoria è un genere di piante acquatiche della famiglia delle Nymphaeaceae, e comprende tre specie, tutte sudamericane. La loro caratteristica più appariscente sono le foglie, gigantesche zattere con il bordo rialzato. La specie amazonica, che cresce appunto nel bacino del Rio delle Amazzoni, era considerata la pianta con le foglie più larghe del mondo, ma questo primato le è stato espugnato da un’altra specie, Victoria boliviana, identificata recentemente in Bolivia e inscritta nel Guinness dei primati nel gennaio 2023, le cui foglie possono superare i tre metri di diametro.

Victoria cruziana

Victoria cruziana
Villa Taranto, Verbania

Anche la terza specie Victoria cruziana, che fu scoperta nel bacino del Rio della Plata dal naturalista francese Alcide Dessalines d’Orbigny e da lui intitolata al suo finanziatore, il presidente della Bolivia Andrés de Santa Cruz, ha foglie di dimensioni rispettabili, oltre i 2 metri, ed è più facile da coltivare alle nostre latitudini perché ha esigenze leggermente meno estreme in quanto alla temperatura dell’acqua, cioè può germinare anche al di sotto dei 30° C.
La prima volta che ho incontrato Victoria, che per me era ancora e solo Victoria regia, è stato nel giardino botanico del parco Balboa a San Diego, California, nel 2001 e poi nel 2010, dove cresce la Victoria amazonica. Poi ho incontrato la Victoria cruziana durante una visita ai magnifici giardini di Villa Taranto su lago Maggiore, a Verbania, dove viene coltivata fin dal 1956.

Vivaio Lemoie

Victoria cruziana al Vivaio Lemoie, Front (TO)

Ma l’ho conosciuta veramente soltanto dopo la visita al vivaio-oasi naturalistica Le Moie, a Front Canavese (TO). In un un territorio di oltre 27 ettari, caratterizzato da risorgive naturali dove l’acqua sgorga a 12° gradi tutto l’anno, che era stato abbandonato e degradato a scarico di rifiuti, Carmelo Emanuele, per gli amici Emanuele Lemoie, ha creato una suggestiva sequenza di laghetti e vasche, animate da uccelli acquatici, pesci e anfibi e una serra destinata alle specie tropicali. Qui dal 2008, coltiva la Victoria cruziana e apre il suo spazio naturalistico ai visitatori perché possano ammirarne la fioritura.

Fiore chiuso

Nel laghetto del vivaio Lemoie  il fiore di V.cruziana è ancora chiuso al tramonto

Il ciclo vegetativo di Victoria cruziana è molto particolare. I fiori sono grandi, dai boccioli a punta, e si aprono di sera, anzi in piena oscurità, per ricevere l’impollinatore, che nel paese di origine è uno scarabeide del genere Cyclocaephala.  La temperatura all’interno del fiore è anche di 6-7°C superiore all’ambiente circostante e l’intenso profumo che emana attira l’insetto che si tuffa a capofitto nel fiore ermafrodita. Quando questo si richiude, il visitatore rimane intrappolato al suo interno, i granuli pollinici maturano e si appiccicano a dovere sul suo corpo e sulle zampe. La sera successiva, il fiore si riapre e il coleottero è libero di andare a caccia di altro nettare, portandosi dietro la preziosa polvere  per impollinare un altro fiore.

Fiore aperto

Il fiore si apre nell’oscurità

Siccome questo scarabeo non esiste nelle nostre regioni e l’autoimpollinazione è poco efficiente, un tempo si pensava che da noi per propagare la specie occorresse impollinare i fiori manualmente. Ma oggi si sa che non è necessario perché esiste un qualche grosso coleottero dalle elitre nere, ancora non identificato, ma molto attivo, in grado di svolgere con efficacia e probabilmente anche con piacere il lavoro del suo parente sudamericano.

Fiore fecondato

Il fiore fecondato cambia colore

I fiori già fecondati cambiano colore e assumono una tinta che dal rosa vira al rosso. Poi la corolla si richiude, il picciolo si piega e sotto il pelo dell’acqua comincia a formarsi un grosso frutto spinoso dove crescono centinaia di semi sferici, che potranno germinare nell’anno successivo.
Ecco come una straordinaria ninfea è riuscita a emigrare dal Sudamerica in Italia e, grazie all’entusiasmo di un grande appassionato, trovare la sua casa.

Fior di loto

Fior di loto Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera

Il solo nome, fior di loto, evoca scenari esotici e un po’ magici. La pianta, Nelumbo nucifera della famiglia Nelumbonaceae, è una specie palustre che cresce nell’acqua, ma dall’acqua eleva sue larghe foglie rotonde alte fino a 70 centimetri. Mi sorprende la sua fioritura nella spettacolare cornice della villa Taranto, uno dei più bei giardini italiani, a Verbania sulle sponde del lago Maggiore. I fiori sono larghi fino a 20 cm, con larghi petali di colore giallo e rosa.  Al centro si distingue il ricettacolo a forma di imbuto, con la parte più larga verso l’alto, nel quale i numerosi ovari sono disposti in una fossetta. E così avviene che i frutti abbiano la forma  forma di cipolla di annaffiatoio con grossi buchi dove si localizzano i numerosi semi, che sono commestibili, molto ricchi di sostanze nutritive e dal sapore di anice. Anche i rizomi sono commestibili e vengono consumati sia crudi che cotti, fonte di amido e fecola.

Fior di loto Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera

Pianta generosa e di facile coltivazione per chi abbia lo spazio adatto, è molto diffusa nei paesi tropicali e subtropicali di Asia e Africa e rappresenta un simbolo di enorme importanza nella cultura dei popoli orientali, dall’antico Egitto, alla Cina, all’India buddista. Sulla simbologia del loto si fonda una delle più importanti Sutre del Buddhismo Mahāyāna, chiamata appunto Sutra del Loto e dal fiore di loto prende nome la posizione caratteristica del Buddha a gambe intrecciate. Celebre è anche l’immagine del Buddha che reca in mano un fiore di loto. Si tratta del Padmapani, il Bodhisattva della compassione, il cui nome deriva dalle due parole sanscrite Padma, fior di loto, e pani, mano.
Alla forma del loto si ispirano anche oggetti tradizionali, una forma classica dell’origami giapponese e architetture moderne, dalla Lotus Tower di Colombo in Sri Lanka, al tempio Bahai di Delhi in India.

Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera
fiore

Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera 
Frutto

Nelumbo nucifera

Nelumbo nucifera
semi

 

 

Ecco di nuovo il fior di loto nell’oasi naturalistica vivaio Le Moie di Carmelo Emanuele, a Front Canavese (TO), con il fiore chiuso al tramonto, il frutto e i semi quasi maturi.

 

 

Erba aglina

Allium tuberosum

L’erba aglina è entrata nel mio giardino nell’estate del 2012 ed è cresciuta un po’ dappertutto, persino in qualche vaso, dove la scovavo magari già fiorita o carica dei suoi piccoli semi neri. E’ una pianticella commestibile, come la maggior parte delle specie del suo genere, Allium, famiglia Amaryllidaceae, e come per la sua quasi omonima erba cipollina (Allium schoenoprasum, vedi 2 maggio 2008) se ne consumano le foglie per insaporire salse e insalate.

Erba aglina è un soprannome generico con cui talvolta si trovano indicate altre specie del genere, pianticelle rampanti e selvatiche come ad esempio l’aglio orsino (Allium ursinum), ma anche piante di altro genere e famiglia, come Alliaria petiolata (vedi 13 aprile 2010) che è una brassicacea e dell’aglio ha soltanto l’odore, e persino la cicuta aglina (Aethusa cynapium, famiglia Apiaceae) e il camedrio (Teucrium scorodonia, Lamiaceae). Ciò dimostra ancora una volta, se ce n’era bisogno, che le piante hanno un solo nome valido, quello scientifico, quello vero.

Erba aglina

Allium tuberosum

Quest’erba aglina è Allium tuberosum, è originaria del continente asiatico,detta anche aglio cinese o erba cipollina cinese.
Avventizia o naturalizzata, è fortemente infestante e l’Australia l’ha introdotta nell’elenco delle specie invasive, da combattere senza pietà. In effetti si propaga con enorme facilità sia per diffusione dei semi che per moltiplicazione dei bulbilli e quindi va tenuta attentamente sotto controllo. Negli anni ho sempre cercato di contenerla nel suo spazio, devo dire in questo caso con un certo successo perché si distingue e separa facilmente dalle altre piante.

Ho deciso di essere implacabile con lei, anche se mi è simpatica. E’ graziosa, con i suoi fiori candidi e le foglie carnose, molto aromatiche, caparbia e resistente a qualsiasi avversità. Eccola ancora fiorita e splendente in questo caldo settembre, che è proprio la sua stagione preferita.

Iresine, la pianta che non doveva essere qui

Iresine herbstii aureoreticulata

Iresine herbstii ‘aureoreticulata’

Iresine è una pianta originaria del Sudamerica e appartiene alla famiglia delle Amaranthaceae, che ormai comprende tutti i più famosi chenopodi di cui ho parlato qualche tempo fa. Ma Iresine non è veramente uno spinacio, è arrivata dalle nostre parti come pianta da appartamento, per il colore brillante e suggestivo delle foglie e la generosità della crescita anche in ambienti chiusi. Non coltivo piante da interno e davvero non l’avrei mai conosciuta se non fosse che un giorno ho avuto l’idea di sostituire una pianta in un terrario che mi era stato regalato.  Purtroppo una delle specie originali aveva sofferto l’umidità invernale e avevo dovuto eliminarla. In una nota fiera di piante ho scoperto un banco che vendeva esemplari per terrari e mi è stata proposta questa pianticella dai fusti rossicci e lucide foglie verde brillante  con nervature colorate di giallo, insomma uno spettacolo di colore. Era alta meno di dieci centimetri e aveva trovato posto egregiamente nel mio terrario.

Iresine herbstii 'aureoreticulata'

Iresine herbstii ‘aureoreticulata’

Come il fagiolo della favola, la piccola Iresine ha cominciato a crescere e in men che non si dica ha raggiunto il tappo della boccia di vetro con decisa intenzione di superarlo in fretta e uscire a conquistare il mondo. Così sono corsa ai ripari, l’ho tirata fuori e sistemata in un vaso, e poi in un vaso più grande,  mentre lei continuava a crescere. Così anche se i manuali di piante parlano di un’altezza massima di 60 cm (in appartamento, suppongo),  nella mia serra ha ormai superato gli 80 cm e prospera slanciata e giuliva nel sole tropicale di questi giorni.

Dove arriverà questa pianta che non doveva essere qui? Ormai ci sono affezionata e la trovo una piccola meraviglia. Non ho certezze sul suo futuro, e non so che ne sarà di lei al cambio di stagione. Ma la sua storia mi fa pensare a quante piante si adatteranno con più facilità ad ambienti tradizionalmente a loro estranei, e magari, perché no, si scopriranno a casa dove non avrebbero mai dovuto essere.

 

Ortiche

Urtica dioica

Urtica dioica

Coccolo le mie ortiche, felice di vederle spuntare qua è là in giardino. Le coccolo senza toccarle, naturalmente. Ma con il desiderio che rimangano, si riproducano, ritornino. Scrivevo il 4 dicembre 2008 :  L’ortica è  la pianta degli orti. In aperta campagna, dove compare l’ortica c’è un segno di coltivazione, di campi addomesticati dall’uomo. Residui di pascoli e bestie, ammassi di pietre composte. Una pianta che è cibo e concime, medicina e insetticida.

Urtica membranacea

Urtica membranacea

Prezioso è il macerato, si mette 1 kg di piante fresche in 10 litri di acqua piovana, si lascia riposare per 5 o 6 giorni e poi si filtra. L’odore è pestifero, ma l’effetto è miracoloso.
L’ortica ha foglie sontuose e delicate, lucide e brillanti. Ma solo le donne di medicina quando la usano per frizionare muscoli doloranti si dice abbiano salve le mani. In tutti gli altri casi basta sfiorarla per sapere a che deve la sua cattiva fama. Così se la vedi la estirpi, con le mani guantate, strappandola senza pietà dalla terra. Tanto, come la sua vicina e antitetica parietaria (vedi 14 maggio 2008), lei ricrescerà, sempre.
L’ortica segue la traccia dell’uomo ed è pianta da incolti urbani, da aiuole di città.

Ortiche e false ortiche

La straordinaria somiglianza fra le foglie di Urtica (in alto) e quelle di Lamium purpureum

In Liguria ci sono (almeno) tre specie di ortica: Urtica dioica, Urtica membranacea, e Urtica urens e non è affatto difficile imbattersi in una di queste diverse specie.
Ma ci sono anche piante che non sono né ortiche né orticanti, ma sono riuscite a mimetizzarsi nelle forme dell’ortica per difendersi meglio dalla voracità degli animali erbivori. Il lamio è una labiata, cioè una pianta della famiglia delle lamiacee come la salvia e il basilico, ma le sue foglie imitano così bene quelle dell’ortica da essersi meritata il nome di falsa ortica (vedi anche 14 marzo 2009).

Il colore del pomodoro

Pomodoro giallo

Murabilia – Lucca 2012

In principio il pomodoro era giallo. Altrimenti perché si chiamerebbe pomo d’oro? Il mercato di questo fortunatissimo ortaggio ha premiato il colore rosso, e così non si trova grande scelta di pomodori gialli al mercato, anzi potrei dire che non ne ho mai visti. Però gli amatori del Solanum lycopersicum da sempre coltivano numerose varietà dorate, dai nomi sfavillanti. Per esempio Yellow pear, a forma di piccola pera, oppure Perle de Lait, i cui frutti sono giallo pallidissimo, quasi bianco, ma la polpa è dolce e gustosa. O ancora il Sunrise giallo, open source per distinguerlo dai pomodori Sunrise rigorosamente rossi e coperti da brevetto e il Piccadilly giallo, con sfumature arancio dorate.

Sunrise giallo

Pomodoro Sunrise giallo

Piccadilly giallo

Pomodoro Piccadilly giallo

Fra le centinaia di varietà o cultivar di pomodoro si trova poi  un vero e proprio arcobaleno di colori, oltreché di forme e sfumature. Se conoscerli tutti è impossibile, ne ho incontrato alcuni veramente fantasiosi, come ‘Cascade de lava’, rosso striato di rigature giallo verdi, ottimo in insalata, un’altra varietà della collezione del coltivatore Valter Marchetti, conosciuto grazie all’associazione Adipa (grazie a cui ho anche conosciuto il Perle de Lait menzionato sopra).

Cascade de lava

Pomodoro ‘Cascade de lava’

Pomodoro viola ucraino

Pomodoro viola ucraino

Pomodoro nero di Sardegna

Pomodoro nero di Sardegna

Per usufruire al meglio delle proprietà antiossidanti degli antociani, ma forse anche per il gusto di creare frutti originali, sono state selezionate poi numerose varietà con buccia e polpa scura, dal viola al nero. I più famosi sono i neri di Crimea, gustosissimi, adatti anche a una stagione breve come quella del loro luogo di origine.
Un altro pomodoro della tradizione ucraino/russa  è invece un’antica varietà di forma ovale di colore marrone viola, riportato alla luce nel 1980 dalla collezione della signora ucraina Irma Henkel Bell. Di perfetta forma rotonda invece è il nero di Sardegna, croccante e molto appetibile in insalata.

Blue Beauty

Pomodoro Blue Beauty

Ma anche il blu fa la sua comparsa nelle sfumature delle bucce, con il californiano Blu bellezza ovvero Blue Beauty, i cui semi sono facilmente reperibili in commercio.

Rimango in America del Nord con la mia scoperta dell’anno, Cherokee purple, una cultivar ritrovata in Tennessee negli anni 1990, ma risalente, a detta del coltivatore Craig LeHoullier che lo ha esaminato, ad almeno cento anni prima e appartenente alla tradizione agricola dei nativi americani Cherokee. I frutti sono bruno violacei, costoluti, piuttosto grossi con polpa variegata di violetto e rosa, gustosissimi.

Pomodoro Cherokee purple

Pomodoro Cherokee purple

Mentre molte cultivar si contendono il primato per il frutto più grosso, e certe varietà possono fornire in condizioni ottimali pomodori che pesano qualche chilogrammo, il  più piccolo è certamente la qualità ribes, con frutti grandi appunto quanto una bacca di ribes, ma squisitamente saporiti, uno dei pomodori più gustosi che io abbia mai assaggiato, anche se il suo utilizzo rimane ristretto a causa proprio delle dimensioni decisamente ridotte.

Pomodoro ribes

Il più piccolo : varietà ribes

Il pomodoro è una specie autoimpollinante, questo significa che i semi di un certo tipo danno origine in genere ad una nuova pianta della stessa varietà, permettendo di mantenere sempre le stesse qualità preferite nella coltivazione.

Tutti gli spinaci del mondo

Spinaci australi

Tetragonia tetragonoides
Spinacio australe

Non è certo stagione di spinaci, e la verdissima Spinacia oleracea, erba invernale per eccellenza della famiglia delle Amaranthaceae, non gradirebbe per niente il caldo umido di questi giorni. Già da tempo ho tolte le piante, raccolti i semi, e aspetto la stagione fresca per piantarli di nuovo. Tuttavia a guardar bene nell’orto continuano a prosperare varie piante che di spinacio hanno rubato il nome.
Tetragonia è una pianta della famiglia delle Aizoaceae, che include molte piante succulente endemiche di zone aride o semi aride dell’emisfero australe. Quella che cresce rigogliosa in un’ aiuola dovrebbe essere Tetragonia tetragoniodes, pianta perenne e non annuale come lo spinacio propriamente detto, meglio nota come spinacio neozelandese o spinacio di Cook, perché è proprio grazie al grande navigatore se questo ortaggio singolare è approdato alle nostre latitudini. Dico ‘dovrebbe essere’ perché il dubbio rimane.

Tetragonia (Spinaci australi)

Tetragonia tetragonoides
Spinacio australe (fiori)

L’ho conosciuto grazie a una deliziosa signora romena, Mariana, infaticabile esperta ed entusiasta appassionata di tutte le piante, che mi ha regalato alcuni semi e me l’ha presentata come ‘spinacio del Sud Africa’ che sua figlia le aveva portato proprio da quel paese. Il che non mi ha affatto sorpreso perché la flora sudafricana è di una ricchezza particolare e sono molte le piante introdotte nei nostri giardini da quella lontana regione dall’altra parte del mondo. Plumbago e Tecomaria sono solo due esempi di piante ornamentali il cui aggettivo specifico capensis non lascia molti dubbi sull’origine di questi fiori.
Ho piantato i semi di Mariana e l’anno scorso sono nate due piante molto rigogliose che hanno prodotto anche microscopici fiorellini gialli all’ascella delle foglie e quindi numerosi altri semi. Soltanto una pianta però è sopravvissuta fino ad adesso, ed è cresciuta moltissimo allungandosi in numerose ramificazioni, nonostante ne abbia fatto ampio uso per le torte di verdure. Dai nuovi semi ho prodotto altre piante, alcune regalate, altre messe a dimora vicino alla pianta madre.  Esistono almeno due specie di Tetragonia di origine sudafricana, Tetragonia decumbens, che cresce prevalentemente sulla spiaggia e ha foglie gustose, ma minute, e Tetragonia echinata, di cui non ho molte informazioni, ma non mi pare assomigli molto al mio spinacio. Invece le mie piante hanno indiscutibilmente l’aspetto di Tetragonia tetragonoides, lo spinacio di Cook.

Basella alba varietà rubra

Basella alba varietà rubra

Così, benché la mia amica insista che i semi provengono dal Sud Africa, continuo a pensare che australi sono, ma più oceanici che africani. Anche se con l’estate la produzione di foglie ha rallentato un pochino, questa pianta fornisce un’alternativa molto appetibile allo spinacio nostrano, disponibile in tutte le stagioni. Non teme molto la siccità e ha foglie croccanti e gustose.

Ancora da sperimentare è Basella alba varietà rubra, spinacio rampicante, di cui mi hanno regalato una pianta. La famiglia è quella delle Basellaceae, che prende il nome proprio da questo genere. Originaria dell’India, è conosciuta come spinacio Malabar ed è diffusa in Cina, tanto che a volte viene chiamata spinacio cinese.  Sistemata in un piccolo vaso nella mia serra, è rimasta quiescente per un po’, quasi volesse studiare l’ambiente, ma poi ha cominciato a crescere, ad allungarsi, alla ricerca di una meta o di un sostegno, con tenace esuberanza. Così l’ho messa a dimora vicino al pergolato della vite, dove continua instancabile a crescere un lungo sottilissimo stelo. Non gli ho ancora strappato una foglia, anche se  sono molto curiosa di assaggiarla.  Tuttavia ho qualche timore per lei perché ho letto che non è una pianta molto rustica e in climi come il nostro potrebbe comportarsi da annuale, ovvero non sopravvivere all’inverno.

Atreplice

Atriplex hortensis
Atreplice bionda (semi)

Tornando in Europa, a quella che era la famiglia delle Chenopodiaceae, ma oggi è stata definitivamente inserita nelle Amaranthaceae, l’atreplice bionda, un’antica varietà di spinaci orticoli dolci e delicati, è stata molto generosa quest’anno, ed è ormai tutta in seme.

Ho seminato poi il Chenopodium giganteum, noto in inglese come ‘tree spinach’, cioè albero degli spinaci perché la pianta potrebbe raggiungere un’altezza di 3 metri. Ho scoperto però che altro non è che un avatar (botanici e agricoltori userebbero l’espressione più consona di ‘varietà’) di Chenopodium album, farinello o farinaccio, piantaccia infestante e diffusissima su cui un giorno scriverò più a lungo (vedi 24 settembre 2009 nel vecchio blog).

Chenopodium album

Chenopodium album
Farinello (foto fatta per strada)

Erba dei derelitti e pane dei poveri, del farinello non si buttava via nulla, ma proprio nulla, perché anche i semi sono una specie di cereale, affine alla tanto decantata quinoa. Verdura velocemente dimenticata anche come spinacio selvatico, soppiantato, e giustamente, per fama e utilizzo dal celebre buon Enrico di cui ho già scritto altre volte, un nobile (anche per il nome) spinacio selvatico che cresce in ambiente di mezza montagna (sopra 300 m slm).

Chenopodium giganteum

Chenopodium giganteum

La varietà  Chenopodium giganteum è utilizzata anche come pianta ornamentale perché le giovani foglie hanno una sfumatura rossiccia veramente attraente. In un angolo solo parzialmente ombreggiato del giardino e senza chiedere più acqua del necessario, è cresciuto rigoglioso e colorato in quest’estate, per ora in verità più umida del consueto. Tutti lo trovano bello e allora se ne sta lì, a farsi ammirare,  mentre io aspetto l’occasione propizia per cucinarlo. Anche del Chenopodium giganteum si possono consumare i semi, ricavandone una specie di cereale e perfino una farina.

Si può cliccare sulle immagini per vedere la foto più grande in un’altra pagina